2 - Partenza nervosa - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 2
Ad agosto, quando abbiamo deciso l’itinerario e iniziato a prenotare, sembrava che ci fosse un tempo infinito prima di raggiungere il 21 dicembre, giorno della partenza.
E invece eccoci qui, sulla nostra auto famigliare, in cui siamo riusciti a stipare due valigie da stiva, due trolley da cabina, zaini e le nostre quattro personcine. 
L’aeroporto di Nizza è infiocchettato modello Natale, noi siamo abbastanza di buon umore nonostante l’alzataccia, ma incappiamo subito nel simpatico addetto “che fa solo il suo lavoro” e che non vuole lasciarci portare i nostri due trolley a bordo. 
Non è che noi amiamo scorrazzare per aeroporti trascinando bagagli, ma, essendoci uno scalo di mezzo, almeno un po’ di biancheria di ricambio bisogna pur assicurarcela, nel caso le valigie vadano perse. Discutiamo in tre lingue, chi in francese chi in inglese e io in italiano. Alla fine il Simpatico chiede di alleggerire i due trolley, così li apriamo con quel caratteristico imbarazzo da calzini, mutande e cose varie che si esibiscono con una certa vergogna. Meno male che si tratta di roba pulita e ben piegata. 
Io scarampo biancheria con teatralità per esprimere il disappunto, i miei figli cercano di razionalizzare gli indumenti, tutti ci guardano. Il Simpatico sorride soddisfatto di aver creato un po’ di disagio, pare che sia proprio il lavoro adatto a lui. 
In ogni caso non si capisce il problema: siamo in quattro, abbiamo il diritto di portare in cabina con noi quattro colli, ne terremmo solo due, uno solo dei quali sfora di un kg, che problema c’è? Se avessimo quattro bagagli a mano avremmo ben più peso. 
Ma il Simpatico andava male di matematica e ora cerca la rivincita. Gli consiglio un corso di simpatia e logica e me ne vado offesa. Comunque vinciamo noi, se così si può dire, i nostri due trolley sono salvi. 
E via, verso lo spogliarello, come chiamo il passaggio attraverso il metal e tutte le terrificanti menate del caso che creano solo problemi ai viaggiatori e nessuna paura ai terroristi. Ma qui si realizza la vendetta del Simpatico, perché a qualcuno non piacciono i nostri sacchetti trasparenti dei liquidi. 
I pesi/volumi dei liquidi sono tutti al di sotto di quelli concessi, quindi dovrebbero passare senza problemi ma… c’è sempre un Caposala (con tutte le mie scuse ai caposala) che trova a ridire. Riprendono le discussioni, noi in inglese, lui come può perché lo parla malissimo. Sa solo dire: anderstend? Anderstend? Con aggressività. Ciccio, se lavori qui è grazie a noi fessi che prendiamo l’aereo. Noi siamo quelli che ti pagano lo stipendio!
Trattiamo come se fossimo in un souk, alla fine il Caposala stipa le nostre cose in sacchetti trasparenti dalle dimensioni che vuole lui (fondamentale su un aereo la grandezza del sacchetto trasparente) e si intasca il dopo barba del figlio. 
Fiaccati da Simpatici e Caposala in action, facciamo colazione nella Infinity Lounge di Nizza perché il viaggio è lungo e vogliamo partire rilassati. Il cibo è quello da aeroporto e noi siamo già sfiniti, ma le bevande calde vanno giù in qualche modo e presto arriva il momento dell’imbarco. 
Passo attraverso l’area profumi per spruzzarmi un po’ del mio J’adore (cosa che si deve sempre fare prima di salire su un aereo, anche per vendicarsi in maniera insensata dei fastidi causati dai Simpatici e dai Caposala), e, fiera del mio biglietto e passaporto validissimi, salgo sull’aereo per Frankfurt lasciando una scia regale dietro di me. 
Giunti in Germania acchiappo un bretzel, cosa che devo fare sempre in aeroporto in Germania, acquistiamo per una cifra esorbitante quei maledetti aggeggi che servono per far attaccare alle prese i nostri dispositivi. 
La cosa assurda è che casa nostra sembra una centrale nucleare, pienissima di cavi, prese, adattatori e poi, quando servono, bisogna sempre acquistarne di nuovi. Non voglio neanche sapere come si presentano ed esattamente a cosa servono, per cui mi fingo morta e lascio agli uomini il compito di farsi spennare. 
Segue check elettronico del passaporto dove l’immagine spaventosa di te compare all’improvviso e tu pensi: e chi è questo, Palpatine? Per poi capire con sgomento che sei proprio tu, ancora peggio che nella foto del documento. Scanner della personcina, ulteriore interrogatorio da parte di un energumeno americano che mi chiede il motivo del viaggio, quando leverò le tende dagli USA e se posseggo armi. Non è affatto amichevole, mi attacca con sgarbo un bollino con scritto security e uno scarabocchio sul retro del passaporto. Basta che non mi ammanetti. Esibisco i miei occhioni da gatto buono e scivolo via più anonima che posso, con un’immotivata sindrome dell’impostore che mi prende a tutti i controlli, certa che nell’interrogatorio che seguirà spiattellerò ogni cosa e giurerò tutto ciò che vorranno. 
Dalla vetrata vedo passare aerei silenziosi, al nostro gate c’è una piccola folla di persone con il cappello texano, sud americani, qualche tedesco che va in America. 
Fa caldo, la truppa va a procacciare del cibo che ci aiuterà nella lunga traversata di dodici ore. Mio marito acquista due sanissimi yogurt, un'idea ottima che ci aiuterà anche nei giorni successivi.
Un bebè frigna in spagnolo. 
Partiamo col sole, mi rifilano roba strana che cerco di mangiare perché odio lo spreco di cibo, e mi consolo con l’eterno succo di pomodoro che bevo solo in aereo, non chiedetemi il motivo. 
La roba strana, ripercorrendo il momento della prenotazione, è dovuta al fatto che avevo chiesto al figlio di indicare per me la preferenza al cibo vegetale, perché di solito sugli aerei ti propinano oche o animali che non vorrei mangiare. Per un fraintendimento mi hanno presa per una allergica a ogni cosa che esiste sulla terra, per cui la sbobba per me arriva prima di tutti e bollentissima. Di certo rinchiude in sé l’odio dello chef-steward per i vegani / vegetariani / celiaci del mondo. 
L’hostess la lancia a mio marito senza dire nulla e solo il mio nome e cognome stampati sulla confezione ne rivelano la destinazione. 
Il rito del cibo, durante le dodici ore, si ripete per tre volte, mentre io cerco alla bell’e meglio di adattarmi al minuscolo sedile, alla mia vicina tedesca che non sorride mai, sferruzza immense coperte di lana spessa che fa debordare senza vergogna su di me insieme alla sua persona. 
Mio figlio è riuscito a sistemarci nei sedili in prima fila, dove ci si può allungare, e questo a prima vista sembrerebbe un grande vantaggio, ma per guardare il film devo tirare fuori lo schermo dal seggiolino con una manovra che non riesco a imparare, osteggiata dalle strabordanze della vicina che non mi viene incontro e fa finta che io non esista. 
Imbarazzatissima tiro, spingo, giro, con tante scuse, lei faccia di marmo, io con addosso una serie di oggetti che sono necessari per il viaggio: telefono con il suo cavo per caricarlo, calzini da mettere al posto delle scarpe, mascherina e collare per dormire, copertina e cuscinetto forniti dalla compagnia aerea, scialle largo per non avere freddo al collo, agenda con penna per le mie memorie, cuffiette, piccolo spray con acqua termale, burro di cacao, fazzoletti di carta e salviette umide, occhiali con catenella, tutta roba necessaria che scivola a terra in continuazione e che mi strema vietandomi di dormire e intrattenendomi in una specie di circuito da criceto. 
Apri il tavolino, mangia, sistema gli scarti in un sacchetto appeso al polso, leggi un po’ sul telefono appeso al collo, metti la roba per dormire sul lato destro (il mio centimetro sul lato sinistro è occupato dalla tedesca e dalle sue coperte), evita di far aggrovigliare i cavi, controlla quando il bagno è libero, alzati, scusati con la tedesca che mi ignora, accetta il bicchiere di succo di pomodoro, tienilo spasmodicamente in mano per evitare che si versi. Turbolenza, allaccia la cintura, slaccia la cintura e così via. 
Lo zaino, che sarebbe stato così utile, mi è stato levato da un figlio alla partenza e infilato chissà dove in una cappelliera, per non disturbare non oso andarlo a cercare, per cui mi tocca fare il viaggio sognando un contenitore dove appoggiare le mie cose. 
Inutile dire quanto odio quelli che stanno nel sedile che si allunga come un letto e che hanno un bellissimo loculo a loro disposizione, proprio a pochi metri da me. Ma in quattro il costo sarebbe stato proibitivo e quindi eccomi qui, per amore dei figli, a viaggiare agghindata come un albero di Natale, senza chiudere occhio. 
In sequenza guardo Grease per la ventesima volta cantando, tanto nel casino dell’aereo non mi sente nessuno, uno dei sequel di Alien di una barbosità terribile, la vita di un’attrice e scopro che la signora all’altra estremità della fila guarda esattamente ciò che guardo io, ma in ordine differente. Cioè, ci copiamo, ma come è possibile? Domande surreali da fare in alta quota. 
Per andare in bagno mi faccio accompagnare dai figli, ho il terrore di non essere capace a chiuderlo, ad aprirlo (ma sarà il centesimo viaggio che faccio, non ho ancora capito niente?) e sono certa che verrò risucchiata dall’aria che tutte le volte mi fa fare un balzo quando tiro lo sciacquone. Insomma le mie ansie mi accompagnano anche tra le nuvole. 
Nonostante i disagi però mi piace volare, quassù entro in una dimensione differente, mi sento tutta rannicchiata dentro di me, dove non ci sono cose da pianificare, doveri, lavori. Posso stare lì per ore a non fare assolutamente nulla, senza sensi di colpa. Forse non dormo per godermi questo stato, la sospensione della vita, e la consapevolezza che la mia famiglia sia lì con me, abbastanza al sicuro, se l'aereo non precipita. 
Atterriamo di giorno, con le nubi. Grazie ai trucchi di mio figlio passiamo i controlli in pochi secondi. Ed eccoci a Houston, la patria della Nasa e degli astronauti! Incredibile come poche ore di viaggio ti catapultino dall’altra parte del mondo. 
Mi tranquillizza il fatto che tra poco sarà sera e che finalmente potrò allungarmi in un letto. 
Prenotiamo un Uber, ma ne arriva uno troppo piccolo. Dopo pochissimi minuti ne arriva uno adatto alla famiglia. Nel frattempo abbiamo recuperato tutti i bagagli e siamo un po’ carichi. 
Raggiungiamo l’hotel Marriot. La prenotazione è valida (non si sa mai), la stanza è per quattro e molto grande, con zona tè, caffè, acqua, i letti sembrano poco più che da una piazza e mezza, ma siamo magri e ci staremo bene. L’antibagno non ha la porta, per cui bisogna attivare un po’ di precauzioni per la privacy. 
Dobbiamo chiedere altri due asciugamani da doccia (in realtà è il figlio che chiede e qui inizia una tradizione che ci accompagna per tutto il viaggio). 
Sono le 21, il mio telefono ha il doppio orario, faccio fatica a ragionare sulle tempistiche e il jet lag inizia a farsi sentire, ma non voglio dargli importanza. Penso che fin qui siamo arrivati sani e salvi, senza troppi inconvenienti, che la Route mi sta aspettando e così il Texas, le terre degli Indiani e tante sorprese di cui non ho la minima idea. 
Questo è il bello del viaggio! A domani.