Eclipse of the Heart: un romance di Elisa Maiorano Driussi che non vi farà dormire


Cosa ha di speciale un romance? 

Non sono una grande lettrice di questo genere, ma sto divorando tutti i romanzi pubblicati da Elisa Maiorano Driussi perché contengono indubbiamente qualche cosa che mi appassiona. 

Intanto sono collegati tra loro, anche se auto conclusivi, e questo è sempre molto piacevole per me come lettrice, e poi ci sono quel pizzico di originalità e piccantezza che mi fanno scorrere le pagine, riuscendo a catturare tutta la mia attenzione. 
Appena Eclipse of the heart è uscito, l’ho finito in una serata. 

I protagonisti sono una ragazza di origine indiana, Priya, che studia per diventare astronauta, con l’idea fissa di partecipare al progetto Marte alla NASA e un giovane giornalista, Dan, che non riesce ad allontanarsi da un evento catastrofico che ha deviato la sua esistenza. 

I due, considerate le loro mansioni, hanno caratterini spiccati e, nonostante siano amici e anche qualche cosa di più, presto vanno in collisione, proprio come due asteroidi. 

I capitoli si susseguono con i due punti di vista, bellissima la grafica con la sagoma di un pianeta a ogni inizio capitolo e i numeri delle pagine racchiusi in una piccola luna. 

Priya deriva da una famiglia tradizionale che viene descritta con tutti i pro e i contro che ne conseguono, solo la nonna, un’anziana saggia, sa come trattare con la nipote e non manca di darle qualche dritta al momento giusto. 

Voglio bene a ogni membro della mia famiglia di origine, anche se a volte li detesto per la loro ottusità e le credenze che sembrano uscite dal medioevo. Ma questa è la famiglia che ho scelto: le persone che sono sempre state al mio fianco nel mio cammino, le donne presenti nella mia vita che, in un modo o nell’altro, mi hanno aiutata ad arrivare dove sono oggi. 

La scrittura è lineare e accattivante, le ambientazioni seguono gli umori dei protagonisti: 

Dan guarda fuori, dove le onde continuano a lambire il muro. La luce del giorno è ormai quasi svanita. I suoi occhi, però, raccontano un’altra storia: brillano di un riflesso simile a quello dell’acqua che si frange a pochi metri. 

Non mancano i momenti di passione: 

Metto le mani intorno alla sua vita. “Se non ti tieni più forte, rischi di cadere…” Gira la testa di lato per parlarmi. Prende le mie ginocchia dal sotto coscia, mi sposta per i fianchi di qualche centimetro in avanti. Poi prende le mie mani e le riposiziona un po’ più verso il suo ombelico. 

Ma ciò che caratterizza la scrittura di Elisa Maiorano Driussi è l’ironia, che fa da contraltare a situazioni difficili: 

Certo, non porto il peso della responsabilità del mondo sulle mie spalle, ma se voglio diventare astronauta è per dare un contributo alla storia dell’umanità intera. 

L’evoluzione dei due protagonisti è ben delineata, con l’ausilio di personaggi secondari che fanno da spalla alle avventure di Priya e Dan. 

L’amore è un fattore difficile da comprendere e da gestire e questi due ne hanno di strada da fare per conoscere se stessi e per potersi accettare per come sono, con i loro desideri, i loro difetti e la loro passione.
Sono certa che non deluderà neanche i lettori che di solito non acquistano questo genere.

Disponibile in formato e-book e cartaceo su Amazon.

Dalle gare in venti righe a una raccolta di racconti: come ho conosciuto Alessandra Vasconi


C’è stato un tempo in cui, in un gruppo di autori su FB, facevamo gare di racconti in venti righe, alcuni li trovate in questo Blog. 

È stata una sfida impegnativa perché dovevamo produrre una storia alla settimana e chi vinceva doveva inventare il titolo di quello successivo e organizzare a sua volta l’evento. 

Ho conosciuto in quella occasione parecchi scrittori interessanti, perché cimentarsi in poche righe, e avendo a disposizione poco tempo, non è facile. 

Credo che questo esercizio ci abbia forgiati e anche migliorati, perché si poteva commentare, dare suggerimenti e un paio di editor, Marcella Garau e Lucia Codato, ci spronavano e correggevano. 
Insomma, ci siamo divertiti e siamo cresciuti con nuove consapevolezze.

Il tempo è passato e, proprio al Salone del Libro di quest’anno, dove ho potuto presentare i miei romanzi, ho incontrato una di quelle autrici, Alessandra Vasconi, di cui ho appena finito di leggere la sua raccolta: “I racconti di Alessandra”. 

Ve ne parlo perché si tratta di parole curate, eleganti, consolatorie e piacevoli, che consiglio a chi desidera fermarsi un attimo e godersi pensieri dolci e profondi, anche se presentati con leggerezza. 

Brevi racconti che fanno pensare, sorridere, sognare, come appare nella dedica iniziale: 

A chi ha perso la strada, 
ma non si arrende. 
A chi continua a sognare, 
nonostante tutto. 

Questa pubblicazione è nata da una favola che Alessandra Vasconi ha scritto per i suoi figli, a cui sono seguiti racconti introspettivi e intimi, momenti di vita, storie di cadute e di rinascite, di partenze e di ritorni, ma anche brevi momenti di evasione, per citare la sua nota introduttiva. 

Solo alla fine di questo inatteso e delicato percorso il lettore troverà una sorpresa che lo ricollegherà alla dedica iniziale e al primo racconto: Il commercialista… (Quando ti senti perso) che si trasformerà nell’ultimo capitolo: …Il commercialista (Abbraccia i tuoi sogni. E brilla). 

Curiosità: la scrittrice, che ha ricevuto premi e riconoscimenti a livello nazionale, come altro lavoro, fa proprio la commercialista! 

La raccolta I racconti di Alessandra – CTL Editore - Livorno – Libeccio Edizioni - la trovate qui

Recensione del romanzo Il nodo del tempo di Alessandro Russo e breve intervista all'autore

Il nodo del tempo è un romanzo che viaggia su due binari: il primo è accogliente, adorabile, fatto di premure e dolcezze, in cui le famiglie, che si susseguono nella narrazione a partire dai primi del Novecento, sono amorevoli, unite. 
In loro brilla la forza dell’amore, in grado di superare difficoltà economiche, situazioni dolorose, morti. 
Ed è proprio la morte che porta il lettore su un altro piano, quello delle due guerre, degli anni di piombo, dello Stato colluso, degli attentati. 
Sembra impossibile che l’Italia minuta, fatta di persone per bene che studiano, lavorano, si amano, sia la stessa della guerra che uccide, dei terroristi, dei politici che non fanno mai la cosa giusta, della strategia del terrore. 
E l’autore Alessandro Russo, abilmente, intreccia queste due realtà, passando dal racconto intimo fatto di scelte, coraggio ed emancipazione a quello sociale, colmo di orrore e di eventi insensati. 
Assunta, simbolica figura femminile, è la madre del protagonista, una donna forte che arriva dal sud, intenzionata a realizzarsi, anche per compensare la morte di ben due fratelli in guerra. Lei studia, si informa, si laurea, diventa insegnante e trasmette al figlio Ludovico tutta la sua instancabile determinazione, perché il mondo, forse, si può cambiare, passando da piccoli e sottili mutamenti. 

Anche a inizio secolo le donne cercavano di emanciparsi per vivere la vita che desideravano, ma il sistema le rimetteva sempre al loro posto. Ora nessuno ci dice esplicitamente dove stare, ma se scegliamo strade diverse o pretendiamo la parità vera, si aspettano che ci giustifichiamo. È una libertà condizionata, in fondo. 

Ludovico da questa figura iconica assorbe il rispetto per le donne, la voglia di verità, la determinazione a raggiungere gli obiettivi. 
Ma, quasi a tradimento, come succede spesso nella vita, qualcuno che sta molto lontano lo coinvolge, fino a fargli dubitare di tutti i sacrifici fatti fino a quel punto. Il giovane infatti si innamora di Alina, una ragazza russa che studia medicina. 
Un’altra donna forte, che rimanda alla madre, e che vuole diventare dottoressa, pur amandolo intensamente. 
La lontananza non aiuta i due innamorati, ognuno intento a perseguire i propri obiettivi, ma un amico arriva a salvare questo amore che sembra impossibile. 
Un rocambolesco viaggio improvvisato dalla Torino piena di fascino a una magica Leningrado, sulla mitica auto FSO 125p e tra le note di David Bowie, lo porta a trovare se stesso, a capire il suo vero volere, aiutato da una provvidenziale proposta di lavoro legata al suo impegno all’università come sociologo e scrittore giornalista. 
Dopotutto, come giustamente rileva il protagonista: 

Per costruire un futuro migliore, è necessario conoscere e rispettare il passato. 

Ed è tramite gli eventi che segnano la sua crescita e la sua coscienza politica come il terrorismo italiano degli anni Settanta, la strage di Piazza della Loggia a Brescia, la strage dell’Italicus, il sequestro di Aldo Moro, la strage di Bologna, che lui riesce a ritagliarsi un futuro possibile, salvando la sua idea di famiglia con la consapevolezza di ciò che è accaduto e che lo ha formato, usando queste ferite ancora aperte per comunicare agli altri verità scomode e spesso taciute, fino ad arrivare a scoperte sconvolgenti come la Loggia P2 di Licio Gelli. 
Il romanzo è caratterizzato da una bellissima colonna sonora, da Rachmaninov a John Lennon, da preziose descrizioni di Torino e di Leningrado che accompagnano il lettore in un viaggio che è anche quello dei protagonisti: 

Siamo compagni di viaggio, Alina. Magari un po’ lontani geograficamente, ma siamo lì, sulla stessa strada. 

Un romanzo che è fatto di avventura, viaggi, amore, scelte e anche di visione di una politica marcia, deludente e, purtroppo, ancora attuale, in cui il protagonista prova a sciogliere il nodo del tempo, tenendo tra le mani una simbolica, vecchia bambola che ha segnato il passaggio generazionale e l’inesorabile passaggio del tempo: 

“Mio zio l’ha fatta per mia madre, quando lei era piccola, tempo prima di partire per il fronte.” Fece una pausa, guardando l’oggetto come se potesse raccontargli una storia che ancora non conosceva. “È sopravvissuta a tutto: la guerra, i traslochi, gli anni difficili, le perdite incolmabili. Mia madre me l’ha data dicendomi che mi avrebbe sempre ricordato chi sono e da dove vengo, il legno è della conca di Agnano, a Napoli, dove tutto ha avuto origine.” 

E il cerchio si chiude, con questo pezzo del nodo del tempo tra le mani di Alina e Ludovico, finalmente uniti, in un epilogo in cui l’Italia calcistica vince tre a uno. 
La nazionale di calcio esce dall’aeroporto di Torino insieme alla coppia di sposi che, simbolicamente, afferra le ovazioni della folla, come se fossero rivolte a loro. 
Un esito positivo e bene augurante per questa Italia che è anche fatta, soprattutto, di persone per bene. 

Domande all'autore

 1. Perché hai voluto scrivere questo libro?

Ho avuto la fortuna di lavorare circa 25 anni in giro per il mondo facendo il programmatore di robot.
Ho visitato luoghi, appreso similitudini e differenze culturali, apprezzato cibi e stretto tante mani.
Una di queste mani è di un collega di lavoro che ad inizio anni 80 ha lavorato in Unione Sovietica.
Durante gli anni di lavoro a Leningrado ha conosciuto l'amore e quando giunse il tempo di rientrare a fine progetto tirarono le somme e si scelsero. Lionello, il suo nome, affrontò non pochi problemi, iniziando dalla burocrazia.
Risolte le pratiche al consolato a Milano affrontò un lungo viaggio, direi epico, con una Fiat 1500, senza navigatore, senza telefono cellulare, senza mappe se non le poche che riuscì a reperire. Per tanto tempo l'ho incalzato spronandolo a raccontare tutto in un libro finché un giorno gli dissi che se non si decideva lo avrei fatto io. Mi spiazzò, mi disse di farlo.
Il nodo del tempo è il racconto di quel viaggio da cui prende spunto, dovendo raccontare il tempo storico in cui il viaggio avvenne ho amato scrivere e raccontarlo così come creare tutta la struttura familiare a ritroso fino agli albori del 900 per costruire il personaggio di Ludovico e far comprendere come le sue scelte abbiano radici profonde nel corpo famigliare. Inoltre, motivazione ancor più forte, ho sentito la necessità di raccontare il nostro paese, gli anni del 900 che troppo spesso a scuola non si studiano a sufficienza, la storia recente di un paese delicato, fragile, come la democrazia che lo governa.

2.Quale è il personaggio a cui sei più legato e perché?

La prima risposta potrebbe essere Ludovico, a cui tengo moltissimo, ma devo ammettere che il personaggio a cui ho dedicato pagine e parole, pensieri e ricordi, è Assunta. Lei è la mamma di Ludovico, una donna che porta dentro di sé i traumi infantili dovuti alla perdita prematura dei due fratelli caduti in guerra. Vivrà questo distacco con dolore eppure questo dolore le darà la motivazione per crescere disillusa, vivrà con la voglia di rivalsa per sé e per i suoi fratelli strappati prematuramente alla vita. La sua autodeterminazione non sarà fine a se stessa, parteciperà alle lotte per i diritti civili, in prima linea.
Assunta incarna lo spirito degli anni 70, la consapevolezza dell'essere donna in un mondo non ancora maturo per il cambiamento, che lotta per i diritti dei lavoratori ma trascura i diritti delle donne, la loro auto determinazione, il loro reale contributo alla società, relegandole sempre ad un ruolo subalterno, mai davvero paritario.

3. Ci sarà un sequel o cosa hai intenzione di scrivere prossimamente?

Sto lavorando a un romanzo breve, un dialogo immaginato tra Assunta ed i suoi fratelli, attraverso la corrispondenza dal fronte e il diario che lei amava scrivere nelle sere di raccoglimento. Sarà un testo molto intimo, doloroso, ma necessario per aggiungere al romanzo Il nodo del tempo un punto di vista ulteriore, un approfondimento, che aiuti ancor più a sviluppare e concretizzare agli occhi del lettore il rapporto tra i fratelli, il valore della memoria, il peso della perdita e la speranza.
Il progetto editoriale prevede inoltre altri due sequel: il primo si svolgerà nel periodo 1982-1989 mentre il terzo ci porterà alla discesa in campo dell'uomo politico che ha indubbiamente segnato il passo negli ultimi lustri, Silvio Berlusconi.
Ritengo impegnativo il progetto, indubbiamente affrontare tematiche sociali e politiche nel nostro paese espone a dibattito, ed è certamente un obiettivo, ed espone a dileggio in altri casi, e questo seppure contemplato non è certamente ricercato.

4. Il complimento più bello che ti ha fatto un lettore?

Ammetto che questo genere di romanzi non rientra nell'elenco dei best seller, eppure da coloro che lo hanno letto e dalle loro parole ho capito che certe tematiche sono molto sentite, attuali, che è necessario parlarne, confrontarsi. In alcuni casi ho avuto la conferma che il 900 è un periodo buio e noto per gli over 50, un buco nero nella storia per gli under 30. Sono contento di notare quanto i temicome i diritti civili, l'emancipazione femminile, la guerra,la famiglia, i sentimenti, siano temi che non lasciano indifferenti.
Nonostante le tante posizioni diverse trovo fondamentale aprirsi al dialogo, quello che è mancato dagli anni 80 e manca tantissimo nel nostro mondo iper connesso eppure frammentato, polarizzato, svuotato nei contenuti perché legato a facili slogan di propaganda. 

Serve una decisa presa di coscienza, serve umanità.

Recensione del romanzo Guatemala - Anno del Signore 1975 di Patrizia Gaslini e breve intervista all'autrice


Nella nota dell’autrice si legge: 

È una terra che si racconta, vibra, risuona, canta. 

Ed è proprio dalla terra che sembra risalire questo racconto che definirei corale, anche se la vera protagonista, oltre alla magnifica ambientazione, è una dottoressa dal nome evocativo (e parlante): Fiamma D’Oriente. 
Bionda e con occhi azzurri che non possono tacere, così diversa, arriva come volontaria in una sperduta missione gestita da Padre Luca, prete impegnato a espiare il suo peccato che nasconde come un segreto inconfessabile. 
Tra i personaggi più intensi c’è Juanita, la Vieja, una piccola e antica sciamana, guaritrice, cuoca sopraffina, amica degli animali. Lei è come la terra, è accogliente, dolce e profumata, ma anche determinata e dura, all’occorrenza. 
I bambini della missione la adorano, tutti la amano e la ascoltano. 

"Lo sciamano capo in persona l’aveva addestrata all’arte di sapersi muovere, ora come il giaguaro, ora come il cobra: le ripeteva che l’animale più goffo, rumoroso e prevedibile, è proprio l’uomo, il cui odore, i cui pensieri, le cui intenzioni vengono captate a centinaia di metri di distanza."

Sembra che in fondo sia lei o la sua saggezza a tirare le fila del racconto, insieme alla sua aquila guida che sovrasta le pochezze umane in quei cieli immensi, orizzonti infiniti, capaci di regalare colori stupefacenti, uragani paurosi e terremoti catastrofici. 
I Cenfuegos sono una famiglia simbolo di sfruttamento e ferocia nei confronti del Popolo affamato e sottomesso, con l’aiuto di Francisco de Blanc, figlio di un Generale in carriera, che deve decidere che strada prendere: seguire le terrificanti direttive del padre o assecondare la sua indole dolce e artistica. 
Fiamma si trova in mezzo a situazioni difficili, malati da curare, uomini forti abbattuti da mostri senz’anima. La sua discesa verso l’inferno della cattiveria umana sembra non finire mai. 

"La malattia è dolore, ma anche riflessione e un paio di occhi nuovi per vedere il mondo, quello di tutti i giorni, quello dove, a volte, ci si accanisce per sciocchezze e ci si abbatte per cose futili, quello dove una giornata di pioggia è uguale a una di sole, quello dove tutto scorre senza mai fermarsi, mentre il nostro mondo interiore ha bisogno di attenzione e ritmi più lenti." 

Questa frase di un paziente la fa riflettere e tutti i passaggi del romanzo fanno meditare e crescere il lettore che, capitolo dopo capitolo, si immerge sempre più in quella terra fatta di alberi, grotte, acqua, montagne, altopiani. 
E poi ci sono il terribile Rossano Cenfuegos, tirannico e patetico marito di Regina, la donna che impara a ribellarsi, in un cammino che è insegnamento e luce per tutte le donne oppresse e umiliate. 
Candido, amico, compagno, figlio, dal volto radioso, non si può non tifare per lui, e il buono e affidabile El Gigante. 
Fiamma sopporta situazioni paurose e si fa in cento per aiutare quella gente senza speranza, finché non si accorge che c’è qualche cosa che non sa, di cui non l’hanno messa al corrente, e fugge, sentendosi tradita, sola, estranea, indegna anche di quella fiducia che, in fondo, le dovevano, come unico compenso al suo lavoro e alla sua dedizione. 
Moreno è il cattivo più cattivo di tutti, perché ha un ‘difetto fatale’ che lo spinge a reagire, ad andare contro gli insegnamenti di Padre Luca e le sue vendette sono temibili e terribili. I suoi occhi di colore diverso diventano simbolo della guerriglia interiore che lo caratterizza. Solo l’immagine della Madonna, e quindi l’amore, forse, lo può fermare. 
Non manca il Popolo, silenzioso, laborioso, rispettoso: 

“Questa gente ha bisogno di poco, non ha pretese e comunque andranno le cose, sarà grata a questa missione e alle persone che si sono date da fare per loro. Imputeranno ogni tragedia al Cielo e la trasporteranno sulle loro spalle, come uno dei tanti fardelli di cui sono abituati a farsi carico, in modo rassegnato ma consapevole e nella disgrazia, come nella gioia, saranno solidali più di quanto non siano stati già prima che questa calamità naturale si abbattesse sulle loro vite.” 

Le vite dei personaggi si intrecciano, si scontrano, nascono amori e muoiono innocenti, in quadri epici, degni della narrativa americana novecentesca, in cui le piccole storie quotidiane diventano simbolo e narrazione universale. 

Un libro bellissimo e scorrevole, che consiglio vivamente a chi ama i racconti avventurosi, con cenni di romance, con una base storico sociale intensa e un’umanità eroica mossa da ideali universali.

Domande all'autrice:


Perché hai scritto un libro con questa tematica:

Perché Il Guatemala è stato il primo viaggio della mia vita, anno 1985, quando la globalizzazione non aveva ancora piantato le sue radici nefaste. Un viaggio avventuroso, nel cuore di un paese straordinario per la natura, il folklore, la gente semplice e accogliente e quel senso di magico radicato nelle abitudini, insieme alla credenza che Dio sia ovunque, nelle montagne, nei raccolti, nelle stagioni e che gli spiriti si trovino negli oggetti e tengano insieme l’universo.

Della sua situazione politica invece, ignoravo pressoché tutto; per girare il paese ci avevano obbligato a mettere dei cartelli sul cofano delle jeep, con ben visibile la scritta ITALIA per identificarci in caso di blocchi militari. Al rientro, avevo deciso di approfondire l’argomento. Così avevo letto gli scritti di Rigoberta Mentchù e della sua lotta contro l’annientamento della cultura Maya, da lì avevo scoperto l’esistenza di documenti come la Memoria del Silencio e Nunca Mas coi loro contenuti di inenarrabili violenze e genocidio, e i rapporti sui desaparecidos che in questo paese hanno superato per numero quelli del Chile di Pinochet. 
Così sono stata folgorata da una realtà che ero lungi anche solo dall’immaginare: solo una delle tante guerre dimenticate e sconosciute al mondo. Da tutto questo ha preso parola il mio racconto.

Cosa vuoi trasmettere al lettore?

Che un titolo è già un intero romanzo
Che è solo facciata quel che vediamo degli altri
Che umanità è comprensione
Che la natura è Dio
Che il caso ci prende per mano e la vita è il suo disegno
Che in Guatemala, la libertà ha le ali del quetzal

I personaggi sono ispirati a persone vere?

I personaggi sono frutto della mia immaginazione. Sono usciti dalla penna e hanno preso vita un po’ per volta, senza un modello a cui ispirarmi, senza riferimenti a qualcuno, avendo però ben presente il contesto in cui si muovevano e i racconti documentali di quel periodo. E anche se non sono persone vere, sono certamente esistite figure identiche con nomi diversi, perché la storia si ripete, i cattivi sono cattivi, assassini o carcerieri, e la loro ferocia può vestirsi di mille versioni, così come i buoni sono sempre buoni, vittime o eroi, e loro azioni mirano sempre allo stesso fine: evitare che il male trionfi. Si tratta solo di dare volti e fisionomie ed essere consapevoli che comunque la realtà supera sempre la fantasia.

Che cosa rappresenta per te il Guatemala?

La mia giovinezza, il mio primo viaggio, il mio romanzo.

˜˜˜

Guatemala è acquistabile 
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Intervista al Salone del Libro di Torino 2025



Al SalTo succede di tutto, oltre a vendere i propri romanzi si possono raccontare i dietro le quinte delle storie che si raccontano, i progetti, le intenzioni dell'autore.

Ecco cosa mi ha chiesto la Strixina che si aggirava tra gli stand alla ricerca di novità.

Collegatevi qui e scopritelo: 

Artemisia troverà le risposte che cercava - Recensione del romanzo La scelta di Artemisia dello scrittore Alessandro Russo

La scrittura è scorrevole, ricca di descrizioni e dettagliata, i personaggi sono meravigliosamente inseriti nel racconto. 

Artemisia affronta le sue paure, lotta per affermarsi e contro gli stereotipi. 

Ho amato questo romanzo, interamente. 

Le storie dei singoli personaggi si intrecciano creando un tessuto eterogeneo di vite degne di essere vissute nonostante le difficoltà e sofferenze che ognuno deve affrontare lungo il cammino, sia esso metafisico o su vette a oltre 4 mila metri. 

Nonostante il desiderio di paternità molto forte Arturo non antepone mai se stesso ad Artemisia e la sprona a lottare affinché trovi il suo baricentro. Una coppia molto affiatata. 

Le donne da sempre hanno bisogno di essere un passo più avanti, più in alto, non deve essere così difficile, non bisogna mai mollare, la nostra società è donna.

Alessandro Russo ha scritto: Il nodo del tempo che si trova qui su Amazon.

La scelta di Artemisia la trovi qui su Amazon.

A passo disuguale - recensione del romanzo di Ilaria Simonini

Già il titolo: A passo disuguale – Mattia, la rossa del treno e il Dylan Dog n. 49, fa comprendere che si tratta di un romanzo succoso. Almeno per me.

Infatti ho letto decine di Dylan Dog, (ma, come dice Loris, chi non ha mai letto un Dylan Dog?), per anni sono andata in treno all’Uni di Genova, a volte mi tingo i capelli di rosso, perché vorrei tanto averli così. 
Mattia invece non ha alcun ruolo nella mia vita. 

A parte gli scherzi, Ilaria Simonini, che quest’anno ho potuto conoscere gioiosamente di persona al SalTo, dove era presente all’interno della CE Spirito Libero con cui collabora pure, è una scrittrice talentuosa. 

Alcuni di voi, Lettori, avranno avuto l’occasione di sbirciare tra i suoi racconti Post to Post in cui prima narrava le sue vicende negli USA e ora quelle in Italia, dove è tornata. Oppure avranno letto con passione il suo primo romanzo: Broken Time Hotel.
L’ironia è la cifra che la distingue, ma nel romanzo in questione c’è anche qualche cosa di romantico, di doloroso e di misterioso. 

Il narratore è Loris, amico di Mattia, che ci fa entrare  nella loro vicenda con un punto di vista originale. 
Mattia, a cui sono riservati alcuni capitoli “Feritoia” (dolorosa la Feritoia 5 - Davanti alla tua foto) è insensatamente innamorato della rossa del treno e vuole trovarla a tutti i costi. Loris, il grande amico, è pazzerello, con una mal repressa vena artistica che sfoga in annunci immobiliari strampalati e in buffi messaggi in segreteria telefonica che confondono i clienti, a dire di sua madre. 
I due infatti lavorano nell’agenzia immobiliare della signora Adele e frasi tipo: Eravamo le Charlie’s Angels geneticamente modificate, mi hanno fatto morire dal ridere, così come: La sciagurata rispose
E come non amare la mitica signora Adele Nanni… Confesso che certe tremende descrizioni mi sembrano quelle che i miei figli dedicano me, ridendo, ma le fanno quelle bestie di satana, (escludendo battute sui tacchi, perché li odio). 
La madre schizzata è un personaggio unico e ha pure un cuore (e da qui il detto cuore di mamma): È una donna che ha sempre affrontato la vita con enfasi; e allo stesso modo ha affrontato la morte, passandoci attraverso con tutta l’anima

E la rossa del treno… che cosa significherà davvero per Mattia e cosa c’entra il fumetto Dylan Dog? Si tratta solo di una scusa per abbordare il ragazzo? La sua personalità è complessa e la sua anima nasconde un segreto.

Alice, la sorellina di Mattia, che fa il DAMS, una tipetta non convenzionale, convertita al mondo dei fumetti, come viene definita, ha un ruolo significativo e mi piace molto. 

Sulla famiglia aleggia una perdita e la visita alla mamma Elisa, con gli stessi occhi dei figli e quel sorriso malinconico che aveva preso ad appartenerle da qualche anno a questa parte, anche le volte in cui era felice, nei pressi di La Spezia, prima di andare al cimitero, strappa il cuore. Ogni tomba è un’isola di pensieri. 

L’ambientazione fa da cornice alle vicende: Non sai cosa voglia dire una serata romantica se non hai vagato ore, la notte, per i vicoli bolognesi. Con l’anima tesa alla persona a fianco, la testa in disordine, il cuore in fermento
Ma Ilaria parla anche della Liguria di Levante, dove è nata: Per quante volte avevo fatto avanti e indietro su quelle valli strane, coi monti di marmo da un lato e il blu dell’acqua dall’altro

Non manca il gatto nero (che non è rosso) e che si aggira nei suoi racconti. 

Si parla anche di malattia, in maniera seria e sentita: La malattia del corpo e quella del dolore hanno qualcosa in comune. Piegano. Piegano la schiena. Frantumano le ossa, se non trovi un appiglio a cui aggrapparti

Questo romanzo è un insieme di belle parole, di personaggi ben caratterizzati, di luoghi dei ricordi, di speranza, di ricerca, è qualche cosa che ti avvolge tra le sue spire, fino all'ultimo capitolo.

Se questa recensione vi sembra un po’ strampalata è perché la sto scrivendo di getto e traboccante d'amore. Infatti in questo libro, in fondo, tra i ringraziamenti, ci sono pure io. Questa cosa la amo pazzamente, ma lo sapete già.  
Concentratevi invece sui piccoli estratti che sono perle di bellezza.
Quindi non vi resta che correre a leggere A passo disuguale di Ilaria Simonini - Edizioni Spirito Libero e la recensione fatevela da soli… ma ricordate di metterla su Amazon!

19 - Una sorpresa tra i grattacieli e fine del viaggio - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 19


Ormai è buio sulla baia di San Francisco.
Il Golden Gate Bridge da una parte e il Bay Bridge dall’altra si riflettono come stelle nell’Oceano Pacifico, con le loro luci e i lampioni.
Sul lungomare centinaia di persone, moltissimi sud americani, munite di gadget illuminati, borse piene di cibo, tavoli e sedie da campeggio si appostano per assistere ai fuochi di Capodanno che verranno sparati sul mare proprio davanti all’ingresso del nostro hotel.
Gli ambulanti, offrendo ai passanti occhiali con la scritta 2025, si moltiplicano, presentando giochini luminosi che saltano, girano, volano, rotolano tra le gambe della gente. 
I chioschi di hot dog e verdura fritta emanano un profumo che si impadronisce dell’intera passeggiata.
Ogni pochi metri si appostano agenti della polizia in divisa, il Pier con la centrale Fire Boat è decorata con fili colorati e intermittenti, sulla soglia staziona una splendida auto dei Vigili del Fuoco di un rosso fiammante e lucido.
L’atmosfera è allegra, nessuno beve alcol, è severamente vietato, nessuno fuma. La disciplina della folla è stupefacente, niente cartacce in terra e nessun botto.
Camminiamo lentamente, assaporando gli ultimi minuti dell’anno, senza fare resoconti o progetti, godendo della brezza del mare e di quella piacevolezza semplice e giocosa.
Osservo i passanti e gioco a creare storie, partendo da una mezza frase acchiappata al volo, da un gesto, da un atteggiamento. Le vite si intrecciano, si incontrano, si scontrano in un’infinità di narrazioni che vorrei fermare sulla carta. Ma ogni cosa ha il suo tempo, e ora posso permettermi di non fare nulla, se non aspettare il nuovo anno dall’altra parte del mio mondo.
Alcuni motociclisti passano impennando, sembra che si stiano sfidando pericolosamente, auto con i finestrini aperti scatenano sonorità trap. La strada viene chiusa al traffico, alle ventitré e trenta iniziano i fuochi.
Ci assiepiamo fuori dall’hotel, insieme ad altri avventori sconosciuti. Le luci brillano nel cielo e scoppiano in mille riverberi, assordanti, esagerate. Se non fossimo consapevoli di essere negli States, potremmo trovarci in un qualsiasi lungomare ligure. 
Aspettiamo la mezzanotte guardando tra cielo e mare, un po’ stanchi, un po’ storditi. Finalmente qualcuno fa il conto alla rovescia e scocca il passaggio dal 2024 al 2025. Silenzio.
Noi quattro ci abbracciamo, ci facciamo gli auguri. La famiglia è un vero regalo e penso che, anche se la fatica è tanta, in questi momenti comprendo quanto sia importante, anche per me.
Ci ritiriamo subito nelle nostre stanze esausti e felici di avere la camera a pochi metri, pronta per accoglierci. Come noi, molti rientrano e vanno a dormire. Un ultimo brindisi al nuovo anno con la birra avanzata e… Buonanotte!
La colazione in hotel è semplice ma buona, partiamo a piedi per andare a vedere i famosi leoni marini. 
La città è deserta, gli addetti alle pulizie stanno lavando le strade che sono già abbastanza in ordine, se penso alla folla di ieri sera e alla festa che ha avuto luogo.
Camminiamo nell’aria pulita, frizzante e luminosa del mattino, nel silenzio interrotto solo dal mare e dal vociare dei gabbiani. Raggiungiamo il Pier più famoso: il numero 39.
Si tratta di un’area turistica e commerciale costruita su questo molo negli anni Settanta. Giriamo sulla banchina di legno, tra negozi e ristoranti che aprono con calma.
Sui pontili alcuni leoni marini si fanno fotografare, sfoggiando i lughi baffi, gli occhi a mandorla e i corpaccioni abbandonati al sole oppure, dondolandosi sornioni, con il nasino puntato verso il cielo.
Prenotiamo un tour dell’Isola di Alcatraz con la barca Bay Cruise che sembra aspettare proprio noi. 
Si parte e lo skyline di San Francisco appare in tutta la sua bellezza, aggraziato, con i parchi verdi, le strade che sembrano piste senza neve, i grattacieli, la ruota panoramica, i cormorani un po’ goffi che zampettano su un molo.
Ci allontaniamo e un enorme gabbiano sorvola la barca, è molto vicino, si posa a prua e ci guarda con aria di sfida. 
Passiamo sotto al Golden Gate Bridge, ci dirigiamo verso la prigione di Alcatraz, l’isola è grande e un po’ sinistra. Penitenziario federale dal 1934, quando vennero ospitati i primi centotrentasette detenuti, tra ladri di banche e assassini, per ventinove anni vide sfilare personaggi come Al Capone. Famoso per l’estrema durezza con cui venivano trattati i prigionieri, per lo più pericolosi, e per i rocamboleschi tentativi di fuga, chi non ricorda il celebre film Fuga da Alcatraz, girato proprio sull’isola, con il grande Clint Eastwood.
Finito il giro in barca prendiamo una Waymo, qui le auto senza conducente circolano da diversi anni e possiamo stare tranquilli. Gentilmente ci porta al Golden gate Park, vediamo il parco giapponese, mangiamo qualche cosa di veloce su una panchina e ci facciamo trasportare da un’altra Waymo nella China Town. A me non interessa molto, e infatti non trovo niente di meglio che in tutti gli altri quartieri cinesi visti in altre città. Trovo le strade piuttosto sporche e sinceramente non vengo folgorata da alcuno spunto.
A piedi ci dirigiamo a Union Square, piena di gente che si gode il primo giorno dell’anno pattinando sul ghiaccio. 
Attendiamo la sera per prendere un bus e fare il giro di San Francisco di notte con le sue luci natalizie, i due ponti che percorriamo ben intabarrati, comodi nella parte superiore del bus, facendo svolazzare le sciarpe, arrivando fino all’Isola di Yerba Buena.
Il nostro viaggio è quasi finito, andiamo a dormire con questa meravigliosa città nel cuore, una delle più belle tra quelle degli USA che abbiamo visto fino ad ora e individuiamo un ultimo giro per domani mattina, prima di andare in aeroporto e affrontare il lungo rientro con scalo a Monaco di Baviera.

Oggi c’è il sole, è il due di gennaio, quando le feste passano mi sento bene, come se avessi adempiuto a un compito difficile. Tiro un sospiro di sollievo e sono lieta di lasciarmi alle spalle i festeggiamenti che tante volte sono stati dolorosi. 
Ma il passato è passato, adesso prendiamo un ascensore e, quando si aprono le sue porte, ci troviamo in un grande parco in cima ad alcuni edifici modernissimi. 
L’effetto sorpresa è assicurato, quando mai mi è capitato di accedere a un parco con l’ascensore?
Qui è tutto grande e impressionante, si fa fatica a capire che ci troviamo al quarto piano e che i viali, gli alberi enormi, i fiori, il bar, le fontane, le panchine, i prati si trovino tra i grattacieli.
Non si tratta di un parco di quelli dove andiamo noi con i bambini piccoli, ma di un vero, grande parco americano, in cui si fa yoga, si balla, si corre tra i ginkgo biloba, le palme, gli aceri gli abeti.
Non mancano le curiosità: una fontana viene attivata dal tram che passa a pianterreno. Infatti, quando si sente in lontananza il suo clangore, ecco che alcuni getti di acqua si alzano in successione, formando quasi una danza. Il Bus Fontain registra i movimenti dei bus sottostanti, attivando l’acqua al quarto piano. Una colonnina spiega il meccanismo che trovo divertente e spettacolare.
Il bar è pieno di tavoli fuori e dentro, prendiamo un caffè e torniamo sui nostri passi: è quasi ora di partire, i bagagli ci aspettano in hotel.
Mi prende uno dei miei magoni da nostalgia acuta che si scatena ancora prima che un evento finisca. Raccolgo da terra una foglia di ginkgo biloba dorata, la stendo per bene nella custodia del cellulare.
Una volta a casa ripercorrerò questo viaggio con i miei scritti, le foto, i ricordi che mi sono portata dietro.
Cammino sola davanti ai miei famigliari, quando un rumore, come un frullare di ali, accompagnato da un pigolio, attirano la mia attenzione. 
Ci fermiamo tutti, gli occhi stretti, immobili, ma cosa sono quei piccolissimi animali che svolazzano alla velocità della luce, che rimangono sospesi per qualche secondo, il becco lungo che si infila nei fiori… ma sono i colibrì. Al quarto piano?
Sì, proprio loro, che hanno trovato in questa oasi verde la casa ideale. Sono così piccoli che peseranno pochi grammi, le piume iridescenti, un suono dolcissimo.
La mia mente da autrice corre verso il significato simbolico del colibrì: libertà, gioia, leggerezza, felicità, rigenerazione, abbondanza e amore. Secondo i nativi americani questo grazioso uccellino incarna uno spirito in grado di aiutare e curare le persone in difficoltà. E, soprattutto:
il colibrì simboleggia l’Infinito.
È quindi perfetto per concludere questa esperienza, incarnando proprio tutto ciò che ho vissuto in questo favoloso viaggio di famiglia, in cui spero di aver portato un po’ anche voi, cari Lettori che avete avuto la pazienza di arrivare sin qui, tra le meraviglie di San Francisco.

18 - Preparativi maldestri per il Capodanno a San Francisco - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 18


Un simpatico iraniano ci porta con il suo Uber al Griffith Observatory da cui si vedono le colline di Hollywood e la famosa scritta. Il posto è pieno di auto in coda, alla ricerca di un posteggio, sembra che mezza Los Angeles sia qui a fare pic nic e siesta.
Giriamo intorno all’osservatorio che è chiuso ma il luogo è molto scenografico, fotografiamo la grande scritta che compare in moltissimi film e spesso in Beautiful (perdonatemi come sempre).
Intorno c’è il più grande parco municipale urbano degli Stati Uniti ed è ricco di sentieri, alberi, piante. Ci sediamo sul prato per fare il punto e poi, su consiglio del tassista, anche se preoccupato per le nostre gambe in quanto ci ha chiesto più volte se siamo in grado di camminare su un sentiero in discesa, ci avventuriamo.
Il posto è proprio bello, la terra quasi rossa, oggi fa caldo e c’è un bel sole, respiriamo aria pulita e in una mezz’ora, senza alcuna fatica (meglio chiarire), raggiungiamo, in fondo al sentiero, un chiosco dall’aspetto semplice e curato. Curiosiamo e, non c’è dubbio, il cibo che offrono è casalingo. Ci vuole un bel po’ prima che i piatti siano pronti, ma ci accomodiamo su sedili di legno, circondati da abeti e, soprattutto, da scoiattoli. L’ambiente è piacevole e bucolico, una signora dall’abbigliamento un po’ trasandato, i lunghi capelli grigi e scarpe bucate, scorre delle riviste e prende appunti, mentre il suo gatto rosso le si struscia addosso con fare regale.
Ogni parte di quell'insieme richiama il relax, la pace, la serenità.
Tornati in hotel chiediamo all’addetto di tenere le nostre valigie in custodia nell’apposita stanza e questo risponde che vuole la mancia. Non abbiamo neanche un dollaro con noi! Abbiamo sempre pagato e dato mance con le carte di credito. Corriamo a cercare una banca nei dintorni. 
Tornati in hotel aspettiamo venti minuti che il vallet ci restituisca la nostra Texi, mancia anche a lui, ora con i miei dollari di carta mi sento prodiga, recuperiamo i bagagli e via, sull’autostrada c’è parecchio traffico, ma il figlio guida senza incertezze.
Ci dirigiamo verso la prossima tappa che è l’aeroporto, dove dobbiamo consegnare l’auto al chiosco della Sixt. Da lì prendiamo il loro bus che ci accompagna in un posto in cui intercettiamo la navetta del prossimo hotel dove trascorreremo la notte: il Westin con piscina, negozi e ristoranti. 
Qui ceniamo, io mi gusto un’insalata con i gamberetti e l’immancabile birra.
La notte passa serena, anche se siamo vicini all’aeroporto, sveglia alle sette, abbiamo un sacco di cose in programma.
Per giunta è il 31 dicembre! 
E nessun progetto per Capodanno.
Colazione abbondante e navetta verso il nostro aereo. Molliamo in stiva tutte le valigie, ora i nostri bagagli consistono in due borsoni nuovi (strapieni), due trolley e due valigioni, oltre ai nostri zaini, il viaggio sarà breve e non temiamo di perderli, infatti siamo diretti a San Francisco.
Alla partenza c’è la solita nebbia che pare sia normale a L.A., ma poco dopo il decollo esce un bel sole. 
Il panorama è stupendo, si vede la costa e un mare che va dal cobalto al lapislazzuli. Una leggera schiuma chiara si abbandona sulla spiaggia.
Finché ho campo cerco di fare gli auguri ad amici e parenti e sui social, ma presto spengo il telefono e mi immergo nell’oasi di pace che l’aereo garantisce. 
Penso a questa vacanza che sta per finire, una leggera malinconia mi fa ringraziare per la famiglia che ho, per la possibilità di fare un viaggio confortevole in luoghi lontani, per i momenti gioiosi che sto vivendo. Mi avvolgono vibrazioni positive che non posso fotografare ma che cerco di fermare scrivendo.
Raggiungiamo il nostro hotel, cambiato all’ultimo momento. Pare che quello che avevamo prenotato ad agosto si trovasse vicino a una piazza mal frequentata e il figlio decide di farci soggiornare davanti al mare al Harbor Court Hotel. 
Entriamo e il caminetto è acceso, l’atmosfera accogliente, grandi divani di pelle in stile Chesterfield sono pronti ad accoglierci, prendiamo due stanze in stile marinaro, piccole ma pulite. Come sempre elimino dal letto tutti i cuscini in eccesso (ma quando Barbieri farà capire agli albergatori del mondo che copriletti, trapuntine, runner e cuscini sono solo acchiappa polvere e, non venendo lavati ogni volta, sono ricettacolo di acari?)
Purtroppo la nostra camera si affaccia su una serie di macchinari, presumo per il riscaldamento, che fanno un discreto rumore e per stanotte prevedo l’uso dei tappi di cera.
Il figlio autista, finalmente senza auto, si rilassa e la stanchezza gli si rovescia addosso. 
Per non dover pensare prendiamo un bus turistico, quelli che io chiamo “Babbeo bus” in quanto sono un po’ da turisti incapaci. Però devo ammettere che sono tanto utili per avere un’infarinatura della città, vedere in poco tempo i luoghi più interessanti per poi tornarci, se li si ritengono meritevoli.
Davanti a noi sfilano le casette colorate dette “Painted Ladies”, in stile vittoriano nel quartiere di Alamo Square, poi entriamo nel quartiere Castro, famoso per la sua comunità LGBTQ+, con murales e arcobaleni, scivoliamo nel The Haight, il luogo che ha fatto nascere la cultura hippy, dove negli anni Sessanta è esploso il fenomeno della Summer of Love, attirando giovani intenzionati a creare una società ideale, pacifica e libera. 
Dall'alto del babbeo Bus vediamo il Golden Gate Bridge che è rosso e spettacolare, il Golden Gate Park, enorme e pieno di piante che spuntano in ogni dove nella città, i Pier, i famosi moli lungo tutta la passeggiata, i Cable Car, la rete tranviaria a trazione funicolare e le strade che salgono e scendono in maniera impressionante.
Si fa sera, il Capodanno si avvicina, non siamo affatto preparati all’evento. Io e il marito usciamo a cercare qualche cosa di capodannesco, troviamo aperto un 7-Eleven in cui compriamo gli immancabili yogurt, un po’ di acqua e l’unica bottiglia di champagne disponibile. 
In hotel, veramente stanchi, ordiniamo cibo da asporto che in pochi minuti ci viene consegnato alla reception.
I figli crollano sui letti, noi ci sentiamo un po' a disagio per non aver organizzato nulla di importante, ma ci giustifichiamo dicendoci che in fondo non capita tutti i giorni di finire e iniziare l'anno a San Francisco e che quindi sarebbe il caso di accontentarci.
Mangiamo, brindiamo con il nostro prezioso champagne e usciamo sulla passeggiata che si sta animando. 
La luce del sole sta scendendo, il Golden Gate Bridge, che sembra sempre più vicino, si sta illuminando, baracchini che vendono hot dog con verdura croccante iniziano a spargere i loro profumi speziati. 
I preparativi per la festa rendono l’atmosfera frizzante e piena di aspettative.
Riusciremo a stare svegli fino a mezzanotte?

17 - Il sogno americano - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico


Capitolo 17

Sto sorreggendo con tutte le mie forze un’immensa coppa dai manici d’argento. È proprio quella del Torneo Tremaghi. Ho inserito il mio nome nel Calice di Fuoco e sono in attesa di essere scelta… Non esageriamo, però mi sono davvero ficcata sotto al magico cappello parlante e anche questa volta (come a Milano) ha strillato: SLYTHERIN!
Sono Serpeverde, ovvero dotata di ambizione, astuzia e intraprendenza, e se lo dice lui…
Siamo negli Studios della Warner Bros di Los Angeles e non vediamo l’ora di esplorare il mondo dei film, spiare i dietro le quinte e scoprire i set cinematografici.
Prendiamo un trenino che ci porta in una boscaglia in cui hanno girato scene di Jurassic Park, andando avanti e indietro su un breve tratto con tutto l’armamentario delle cineprese per simulare chilometri di foresta. 
Ecco le strade di città che vengono modificate a tempo record a seconda delle ambientazioni che devono rappresentare, le roulotte dove si cambiano gli attori. Per i più famosi non manca la targhetta con il loro nome.
Le pareti delle casette sono sottili, le facciate sono dipinte come trompe l’oeil per sembrare a tre dimensioni, le porte si aprono sul nulla, perché la scena successiva viene girata in un altro ambiente. 
Proseguiamo a piedi dove incontriamo il set della celebre serie Friends, con tanto di divano. 
Scorrono ambientazioni natalizie in cui si può entrare, acquistare gadget, mangiare qualcosa, non manca nulla per far sentire il visitatore nel pieno della magia cinematografica.
Non posso credere alla bellezza e cura della serie di costumi del film del 1964 che ho adorato, My Fair Lady, con Audrey Hepburn. Otto premi Oscar, tra cui quello per i migliori costumi. Mi sembra di essere all’Ippodromo di Ascot.
It si affaccia inquietante da una buia finestra, finte pareti, macchinari che spostano intere stanze, un’enorme pila di manoscritti che sembra una scultura surreale, il costume di Elvis per il film del 2022, i disegni originali di Tweety, di Speedy Gonzales.
Divertenti gli oggetti che servono per creare i rumori: le forbici aperte e chiuse per generare il ticchettio di un orologio, la scatoletta di carne per cani, aperta, crea la vocalità di un mostro, le noci una contro l’altra simulano i cubetti di ghiaccio in un bicchiere. Non c’è limite alla fantasia.
Da una stanza all’altra incontriamo i personaggi di Games of Thrones, costumi, auto e oggetti di scena di Batman, Spiderman e una sfilza di supereroi.
Veniamo sorpresi dall’auto volante di Harry Potter, dal suo polveroso angoletto sotto alla scala, dove abitava a casa degli zii. Dobby sembra che ti stia venendo incontro per strabuzzare i suoi occhioni e muovere le sue incredibili orecchie. Ecco le lettere volanti di quando Harry è stato chiamato ad Hogwarts, le mandragole nella serra che, se estratte, strillano come ossessi, le pozioni e gli antidoti che lampeggiano, luccicano ed emanano sinistre luminescenze, a volte un Polisucco ci vorrebbe proprio. Infine le bacchette intarsiate che hanno usato gli attori, meravigliose. Gli oggetti di scena sono curatissimi e immaginiamo il lavoro di tanti artigiani abili e sorprendenti.
Usciamo da quella fabbrica di sogni pieni di meraviglia, con le immagini dei film più famosi al mondo ancora nei nostri occhi e la storia dei fratelli, che inizia in un villaggio yiddish della Polonia, nel 1889, quando la signora Wonskolaser partì con i figli per raggiungere il marito emigrato in Pennsylvania. Quei bambini – Szmuel, Hirtz e Aaron – diventeranno Sam, Harry e Albert Warner. Con il fratellino Jack apriranno nel 1903 una sala cinematografica a New Castle. 
Ma il vero sogno li chiamò nella soleggiata California, dove fondarono una casa di produzione destinata a cambiare la storia del cinema. Nel 1923 nacque la Warner Bros. Il primo successo fu Frozen River, con una star a quattro zampe: Rin Tin Tin. Poco dopo, arrivarono i Looney Tunes: Bugs Bunny, Daffy Duck e una pioggia di successi che trasformarono la Warner in una leggenda.
Da una sala di provincia ai grandi studios di Hollywood: il vero sogno americano che si avvera e un’eredità che continua a scrivere la storia del cinema.

16 - Walk of Fame - Malibu - Rodeo Road - Beverly Hills - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 16


Oggi sarà una giornata ricca di spunti, abbiamo molti luoghi da visitare e Los Angeles è immensa, quindi si parte con la Texi per andare a vedere la famosa Hollywood Walk of Fame.
Posteggiamo in un oscuro garage e riemergiamo in un quartiere squalliduccio, arredato con alti edifici senza grazia, sporco. Per terra cartacce, a zonzo personaggi poco raccomandabili.
Lungo le vie ci sono più di duemila stelle con il nome di personaggi più o meno noti, quindi si cammina con il naso in giù. 
Fotografo Maria Callas, Armstrong e compari per la loro avventura sull’Apollo XI e per rimanere in tema Huston e poi mi stanco subito. 
C’è un tipo che, con appositi sticker, inserisce il tuo nome sul camminamento, ne faccio anche a meno.
Per mia gioia incappiamo in un negozio di dischi, sì, quelli di vinile! Ce ne sono un mucchio di David Bowie, The Cure, Bauhaus, The Doors… una pacchia. Si chiama Amoeba Music - The world’s greatest record store e in effetti è gigantesco, pieno zeppo di dischi, CD, cassette, film, poster, giochi, tote bags, accessori, stickers, t-shirts, pins, ci si potrebbero trascorrere ore a gironzolare. 
All’uscita ci chiedono di aprire gli zaini. Sono certa di non aver rubato nulla, certissima, ma che ansia!
Un po’ delusi dalla Walk of Fame riprendiamo presto l’auto e ci dirigiamo verso Malibu. 
L’Hollywood Boulevard è la parte più carina della strada, con le sue palme e gli edifici bassi, ma io non vedo l’ora di arrivare al Pacifico e alle spiagge che si vedono nei film. Posteggiamo un po' a caso presso il Malibu Lagoon State Beach.
C’è poca gente in giro e la riserva è piena di piante e animali che non ci aspettavamo.
Un leprotto saltella tra l’erba, alcuni aironi bianchi e cinerini becchettano nella laguna, conchiglie di madreperla sono graziosamente incastonate nella spiaggia, coronata da basse casette dai colori pastello. Un gabbiotto di legno azzurro presiede la zona, il bagnasciuga è finemente decorato da pietre e alghe.
Cozze grandi come la mia mano si arenano, stupefacenti anemoni di mare di un azzurro perlaceo mai visto fluttuano tra gli scogli. Non mancano i ricci purpurei, i granchi vivi e morti, gabbiani che sventagliano le ali sulle nostre teste, i surfisti che caracollano tra gli spruzzi e persino i delfini che saltano tra un’onda e l’altra. 
Questo è il paradiso, oppure un set cinematografico, siamo finiti nel Truman Show!
Certamente si tratta di un altro posto da cui non vorrei staccarmi. Ma i ragazzi hanno fame e bisogna andare a cercare del cibo.
A malincuore torno sui miei passi. Attraversiamo la trafficata Pacific Coast Hwy. e ci dirigiamo a piedi verso un’area pianeggiante, molto verde, raggiungiamo alcuni negozietti in stile californiano con esposti in vetrina abiti cari, in stile sportivo e marinaro. Persone vestite in maniera casual ma studiata fanno shopping portando a spasso, insieme a mini cagnolini, una certa disinvoltura e un’aria blasé, adatta all’ambiente.
Raggiungiamo un bel supermercato, il Whole Foods Market, dove le verdure sono allineate così bene che sembrano quadri, per giunta ogni pochi minuti vengono irrorate da un’aggraziata pioggerella.
Fotografo un curioso Pumpkin Purèe in lattina e vaschette d’acciaio contenenti coloratissimi ingredienti per comporre piatti freschi. Tutto è sano, bio, veg e ovviamente carissimo.
Un po’ alla volta mettiamo insieme il nostro pranzo, tentando inutilmente di non uscire dal budget, e andiamo a mangiarlo in un’area da pic nic dove si accampano solo i turisti. L’aria è pulita, il sole scalda, l’atmosfera è rilassata e piacevole. Malibu, con la sua eterea immagine radical chic, è meravigliosa.
Sulla strada del ritorno vediamo una di quelle auto che sembrano uscite da Minecraft, quasi pixellate, si tratta del famoso pick-up Cybertruck della Tesla. Dal vivo fa un certo effetto, è antipatica, lo ammetto, però fa colpo.
Facciamo una sosta in uno dei tanti centri commerciali per acquistare due borsoni. Ormai è chiaro che le nostre cose sono disubbidienti e non torneranno mai nelle loro valigie. 
Saliamo al Canyon per ammirare una visione panoramica e ci dirigiamo a Beverly Hills per vedere il famoso quartiere vip, con villette strepitose, dai giardini perfetti. 
Tutto è lucente, pulito, ordinato e verde brillante. Sontuose decorazioni natalizie si accendono sul far della sera, rendendo ogni angolino ancora più magico. 
Le case sono di tutti i generi: da quella sinuosa come uscita dalla mente di Gaudì a quella in stile coloniale, montano e così via. 
I giardini presentano prati intonsi e regolari, ogni cosa è al suo posto e l’occhio non può che godere di tanta cura ed eleganza.
Non ci siamo documentati su “chi abita dove”, come promettono alcuni tour turistici, per cui il nostro è un giretto anonimo, le star che occupano quelle deliziose ville con noi possono stare in pace.
Terminiamo la gita del lusso nella via dello shopping: Rodeo Road. 
Il bellissimo viale è costellato dai negozi delle grandi firme della moda, ci mettiamo in coda e sfiliamo molto lentamente con la Texi. Il lato positivo è che posso fare foto originali a certe vetrine e a certi avventori. 
Tutto è abbellito dalle decorazioni natalizie infilate nelle aiuole spartitraffico centrali. Un enorme coccodrillo rosso corallo spalanca le fauci, mentre un gorillone abbraccia un grande cuore, un signore vestito di tutto punto, ma con le infradito, porta a spasso un orso bianco con il cappello di Babbo Natale. Dal marciapiede un fotografo di plastica prende nel suo obiettivo una fastosa vetrina da cui si affacciano giraffe, renne e struzzi. In cielo, da un palazzo all’altro, sfreccia Babbo Natale sulla sua slitta opportunamente illuminata, è un gran colpo d’occhio.
Un po’ stanchi e pieni di immagini da processare e mettere nel cassetto dei ricordi torniamo in hotel, lasciamo l’auto al vallet e scrivo il resoconto della giornata. 
Giretto in piscina, cena e rifacciamo le valigie, felici di avere due borsoni in più che ci danno un po’ di respiro.
Domani in programma abbiamo gli Studios della Warner Bros. Chissà cosa i riserveranno!




















15 - Quando finisce l'uomo e inizia l'auto - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 15

La strada è quasi deserta e poco illuminata dai lampioni. 
Mi preparo con la telecamera accesa puntata verso l’angolo da dove dovrebbe arrivare la Waymo.
Un’auto bianca, con una luce blu sul tetto, svolta e si dirige verso di noi, silenziosa. Mette la freccia, accosta a un paio di metri.
Ci avviciniamo emozionati. La luce blu proietta le iniziali di mio figlio che ha fatto la richiesta della corsa. Dall’App lui sblocca le maniglie.
Guardiamo dentro: non c’è proprio nessuno. Apriamo gli sportelli, io mi infilo dietro, sono un po’ intimorita. Una volta tutti e quattro sistemati, il figlio dà l’ok per la partenza. Una voce femminile ci ricorda di allacciare le cinture e ci tranquillizza.
Uno schermo dietro e uno davanti disegnano il percorso su cui si possono vedere tutti gli ostacoli rilevati dalle telecamere e dai radar, anche le persone che sono dietro ad altre auto. L’auto vede più di noi umani.
Tramite il touch possiamo scegliere la temperatura dell’abitacolo e il tipo di musica. Metto una canzone rilassante, è sera, fra un po’ andremo a dormire.
L’auto si immette sulla carreggiata, il volante gira da solo come se fosse mosso da un fantasma. La Waymo è silenziosa perché elettrica, sul cruscotto c’è la scritta:

Please keep your hands off the wheel.
The Waymo Driver is in control at all the times.

Quindi, per prima cosa non si può intervenire nella guida, poi c’è un pulsante che rassicura, infatti cliccando lì si può chiedere assistenza e parlare con un umano che, a quanto pare, sta monitorando tutti i viaggi delle auto della flotta.
Scopro che a Los Angeles queste Jaguard sono in funzione solo da un paio di mesi, certo, hanno fatto un lungo training, ma chissà cosa potrebbe accadere!
Sfilano le immagini di film in cui l’intelligenza artificiale prende il sopravvento. Immagino l’auto che si chiude ermeticamente e che ci porta in qualche hangar dove verremo fatti a pezzi, la voce gentile che si trasforma in una serie di comandi crudeli.
Invece lei guida liscia e prudente, nulla a confronto di certi autisti bruschi e incoscienti, lei evita la caotica autostrada e fa un bel giro quasi turistico dove vediamo altri angoli di L.A. Sugli schermi compaiono i minuti che restano all’arrivo, le strade che intende percorrere, la velocità.
Le luci della città si proiettano su quel posto vuoto alla guida a cui si fa fatica ad abituarsi, ogni tanto incontriamo altre auto simili, sembra che si passino dati e che siano in contatto tra loro.
È tutto affascinante e inquietante.
Giunti all’hotel, la Waymo accosta al marciapiede a pochi metri dall’ingresso, comunica le ultime cose come slacciare le cinture e ricordare di non lasciare oggetti in auto, poi ci saluta e ci invita a scendere. 
Il figlio sblocca le portiere dall’App, noi scendiamo sani e salvi e guardiamo con stupore l’auto fantasma che, dopo qualche secondo, mette la freccia e rotola sull’asfalto, nel suo silenzio surreale.
Sento qualche cosa di religioso e blasfemo allo stesso tempo.
Mi domando se, quando non c’è nessuno, lei scelga un sottofondo musicale… e quale.

14 -Santa Monica, Forrest Gump e delivery robot - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 14

Il nostro Uber ci porta in un punto panoramico di Santa Monica, da cui si vedono il molo, le attrazioni, la spiaggia. 
È già sera, la temperatura è perfetta e le luci fanno emergere piccoli dettagli, sembra tutto allegro e meraviglioso. 
Scendiamo verso il Pacifico pieni di curiosità. Lungo la strada incontriamo dei bidoncini rossi su cui c’è scritto Coco, capiamo che si tratta di robot per il delivery, vanno da soli, hanno un’antenna sulla parte superiore e le ruote, l’effetto è sorprendente. Vi piacerebbe ricevere una pizza in questo modo?
Per prima cosa facciamo un giro sul molo. Qui è posteggiata un’auto della polizia un po’ particolare: sul tetto ha un surf, pronto per l’agente nel caso in cui dovesse attivarsi tra le onde dell’Oceano.
Ed ecco l’Oceano scuro, misterioso, con lunghe onde. Scendiamo sulla spiaggia, sento un richiamo fortissimo verso la riva. Mio marito mi esorta a stare lontano per non bagnarmi le scarpe. Io disubbidisco, mi sembra di essere tornata bambina, quando la nonna non mi faceva avvicinare al sicuro bagnasciuga di Rimini. 
E allora vado a toccarlo questo Oceano, finalmente ci conosciamo. Lo abbraccio con lo sguardo, voglio stare da sola con lui, il Pacifico, anche se per pochi secondi. Inspiro la salsedine, sorrido, la felicità fatta di niente. Lascio l’impronta della mia sneaker sulla sabbia per suggellare la nostra amicizia, e la fotografo.
Alcuni artisti fanno i ritratti delle persone, illuminati da potenti faretti, sotto a ombrelloni colorati. 
Scrolliamo la sabbia dalle scarpe, andiamo a esplorare il Luna Park, quante volte lo abbiamo visto nei film, e, a proposito di film, ecco il luogo dove Billy Bob Thornton (ve lo ricordate in Babbo Bastardo? Uno dei miei film preferiti) andava a meditare nella bellissima serie Goliath, gustata poco tempo fa. Ci immergiamo in quelle atmosfere e riviviamo alcune scene che ci erano piaciute.
Qui ogni cosa ha il sapore del déjà vu e per questo stiamo bene, siamo a nostro agio, tra persone serene, niente fa pensare al pericolo che spesso si respira nelle città. 
Un banchetto di Alejandro promette freschezza e frutta deliziosa, da alcuni locali escono profumini invitanti. Ci avviciniamo al mitico Bubba Gump, c’è la coda, prenotiamo per la cena e continuiamo il nostro giro esplorativo.
Un cartello ci informa che proprio qui termina la mitica Route 66, non lo sapevo e mi sembra una cosa bella e giusta. Mi fermo a fotografarlo e a salutarlo, chissà quante persone hanno fatto le mie stesse azioni in questo punto. Mi sento parte del mondo.
Torniamo presto al ristorante, abbiamo fame, la struttura è di legno, in stile marinaro, ispirata al film Forrest Gump, piena di richiami, oggetti di scena e, se si vuole attirare l’attenzione del personale di sala, basta girare il cartello "Run Forrest Run" oppure "Stop Forrest Stop". Ordiniamo diversi piatti a base di pesce che, ovviamente, è la loro specialità: Jumbo Shrimp Cocktail, Mama Blue’s Fried Shrimps, Shrimper’s Heaven, patatine fritte e birre. Finalmente un menu differente dal solito e molto buono. 
Al termine ci invitano a passare dallo store in cui ci regalano alcuni boccali da birra con il loro logo. Sono di vetro sottile e questo mi preoccupa. Riuscirò a riportarli a casa? Questa sarà la mia prossima mission.
Per tornare, il figlio propone qualche cosa di nuovo, inquietante e sorprendente: la WAYMO, l’auto che guida da sola, senza conducente.
Siamo indecisi, le guardiamo sfilare silenziose sulla strada, ce ne sono parecchie e alla fine ci convinciamo. 
Riusciremo a tornare in hotel senza inconvenienti?

13 - California über alles - Road Trip dalla Route 66 al Pacifico

Capitolo 13


Siamo in California!
Oggi primo hamburger della mia vita. Sembra strano ma hamburger e polpette non fanno per me, per cui li evito sempre.
Per pranzo entriamo da In-Out Burger a Victorville, un locale che promette di servire poche cose ma cucinate alla vecchia maniera e sane.
Se non provo il loro hamburger, non mangio, così mi faccio forza. Un ragazzo tutto agitato accoglie le richieste, sembra alle prime armi e cerca di stare al passo con i numerosi avventori. C’è un po’ di coda ma presto possiamo sederci e assaggiare.
Le patate vengono tagliate sul momento e fritte di fronte a noi, il profumo è buono, il panino si presenta con carne fresca, non congelata, formaggio, insalata e pomodoro. Il gusto è ottimo, differente da quelli americani, pieni di grassi e salse non ben definite, è più europeo. Cerco di non pensare che si tratta di un hamburger e supero la prova.
La catena è nata nel 1948 in California, come informano sulle confezioni, e pare che paghi i suoi dipendenti più del salario minimo e che ci tenga a servire ai clienti alimenti freschi e qualitativamente superiori alla media. La curiosità è che sotto ai bicchieri e alle vaschette si trovano strane citazioni bibliche con una piccola stampa che contiene soltanto i numeri del libro, del capitolo e del verso, per sapere cosa vogliono dire bisogna andare su Google. A me capita: REVELATION 3:20. Se siete curiosi andate a cercarlo.
Notiamo che le persone iniziano a essere più magre rispetto a quelle negli Stati che abbiamo attraversato in precedenza. Si sa che in California hanno la mania del food sano e dello sport.
Ripartiamo per Los Angeles, filmo una delle tante bandierone a stelle e strisce che sventolano lungo la strada, costeggiata da attività commerciali. L’asfalto si lamenta in maniera inquietante sotto alle ruote dell’auto, sembrano lamenti, saranno i lamenti di chi l’ha gettato?
La strada per L.A. diventa sempre più grande, le corsie aumentano, il traffico pure. Nessuno rispetta i cartelli, c’è una grande confusione, il figlio, sempre al volante, inizia a dare segni di stanchezza e di irritazione. Bisogna stare attentissimi perché auto, furgoni e camion sfrecciano da tutte le parti e non ci sono controlli.
Finalmente il cartellone verde che sovrasta l’autostrada ci informa che stiamo entrando in città: enormi grattacieli si stagliano tra le palme, un senso di maestosità ci accompagna fino al nostro hotel che si trova nel centro e si chiama The westin Buonaventure. È un grattacielo formato da torri scenografiche, ascensori esterni trasparenti che planano su piccole piscine e una hall spaziale con fontane che fanno giochi d’acqua sopra la testa dei clienti, attraversando bocche di delfini.
L’auto viene confiscata da un valet che la fa sparire in qualche garage, la nostra camera è al diciottesimo piano. Sperimentiamo l’ascensore che ci offre una bella vista della città.
Questo hotel è stato costruito negli anni Settanta ed è davvero sorprendente. All’interno è tutto cemento con sinuosità plastiche, passerelle, rientranze, diversi livelli ed è stato utilizzato come scenografia per moltissimi film e serie tv tra cui Wonder Woman, Starsky & Hutch, Rain Man e Interstellar.
In effetti sembra di essere in un set surreale o su un’astronave. Il bar a pianterreno è tondeggiante e, salendo con l’ascensore del colore giusto, si può ammirare la città di notte, tra mille luci e una grande piscina azzurra. Il tour dell’albergo è soddisfacente, ma, dopo un breve riposino, vogliamo andare a esplorare la città.
La prima cosa che ci viene in mente è Santa Monica. Anche questo luogo è così famoso come location di film che non vediamo l’ora di camminare su quella spiaggia, vedere il luna park e scoprire cose nuove.
Chiamiamo un Uber e in pochi minuti ci ritroviamo nel traffico di L.A., questa volta un po’ meno preoccupati, anche se il tassista va veloce e a volte sarebbe meglio chiudere gli occhi e pregare.
Arriveremo alla meta? Lo scoprirete nel prossimo capitolo.