Lei

Uno schiaffo, le cinque dita stampate sulla guancia. In cucina a Milano, seduta su una sedia a fare i capricci.
Una cosa vera, fisica.
Verso Natale un giorno mi lasciò da sola pochi minuti per andare a prendere il latte. Ero molto piccola e, nonostante le rassicurazioni, non mi davo pace.
Le sere in cui dormiva sul divano rosso in camera mia con la luce fioca dietro al paralume, perché io avevo paura.
Di notte la chiamavo, sognavo le streghe, erano in bianco e nero, come sulla pellicola di un film.
Le mattine di primavera, quando a Milano l’aria cambiava, le rondini cantavano.
Io giocavo nella mia camera con le bambole, mentre lei era in cucina a preparare da mangiare. L’odore dello Strudel.
Un pomeriggio in cui mi ha portata alla Scala per vedere il balletto di Cenerentola.
Le poltroncine di velluto, le signore vestite bene, lei con il tailleur nero, le luci splendenti come candele. Mi sentivo una regina, anche se mi spiaceva aver lasciato a casa papà.
I pomeriggi nel parco dove giocavo e lei seduta sulla panchina. Una mattina in cui pioveva con il sole, l’arcobaleno, un evento prodigioso e inspiegabile.
Quando cercava di convincermi a fare le punture e io scappavo anche se mi promettevano il giornalino.
Quando litigava con mio papà, a volte.
Il parco Lambro.
I giochi senza frontiere con la tv in bianco e nero sul terrazzino che era la sua disperazione perché i piccioni lo sporcavano.
Il parquet a listelle.
Il tavolo ovale in sala con il divano che dava le spalle alla porta.
L’albero di Natale in fondo al corridoio. 
Il Babbo Natale rosso con la molla che gli faceva muovere la testa. 
Ciccio Bello e la sua scatola di polistirolo che mio papà aveva buttato e io avevo visto accanto alla spazzatura nel cortiletto interno.
La mia sedia a dondolo, rossa anche lei (c'è ancora e ci sarà sempre).
Lo stereo mastodontico con le casse e la maniglia, i dischi di Biancaneve e dello Zecchino D’Oro, La pappa col pomodoro e Antoine.
Il chiosco delle angurie all’angolo tra viale Lombardia e via Andrea Costa.
Le canzoni con la chitarra di Fausto Leali, ancora sconosciuto, sul terrazzo di fronte.
Un giovane che mi urta per strada e i miei genitori che gli urlano “cafone”!
I viaggi sulla millecento grigia di sera, sdraiata sul sedile dietro a guardare le luci gialle della città al contrario, finché non mi addormentavo.
Le sfilate per i bambini nel negozio dove acquistava i miei vestitini e i cappelli.
La parrucchiera dove c’era l’angolo dei giochi per i bambini. 
I capelli cortissimi perché con la luna nuova si fortificavano e il mio pianto disperato.
Le caramelle al miele Ambrosoli mentre la aspettavo nell'atrio quando andava in palestra, c’era odore di plastica e di dolce. Sapevo che lei, vestita di nero, dopo poco, sarebbe uscita dalla porta e mi avrebbe portata a casa. Così bella.
Il nostro barboncino nero, il Guglielmo Tell che era il mio cavallo.
I pic nic in campagna con il plaid scozzese grigio e il tavolino con dentro i sedili e il necessario per il pranzo.
Mi sono aggrappata a lei per non andare all’asilo. Ne ho girati parecchi, volevo solo stare con lei.
Vomitavo per non partire per la montagna. Mi veniva sempre l’acetone.
Anni di rimozione. 
Forse dovevo fermare nella memoria qualche particolare in più.
Milioni di se.
E poi tutto cancellato in un attimo.
Abbiamo portato rose rosse sulla sua tomba, nel cimitero di Novara. Una è sparita durante il tragitto, l’abbiamo cercata ovunque ma non c’era più.
Oggetti.
Mi saluta ogni volta che apro il suo carillon e lui si mette a suonare, un po' stonato, dopo anni di silenzio.
La cerco dentro di me perché ci assomigliamo.
E nelle persone per strada, a volte basta uno sguardo, un modo di camminare, uno sfioramento, è lei che mi sta vicino, che mi manda segnali. Allora ho la certezza di ritrovarla, anche se il suo linguaggio è da decifrare. Non capisco tutto benissimo, ma percepisco la presenza.
Tocco i suoi gioielli e le nostre dita si incontrano fuori dal tempo, in un altro spazio.
I suoi quadri appesi in casa, forse tra poco mi viene a salutare e mi dà il bacio della buona notte.
Non conosco il suo odore, la consistenza della persona, la voce.
Un ricordo da cancellare, una presenza fastidiosa da nascondere e dimenticare, quasi una menomazione. 
Io ero quella senza di lei e non volevo essere così, volevo essere normale, come tutti gli altri bambini. 
E il mondo non capiva che mi doveva solo lasciare in pace e non dire nulla.
È durata cinque anni la nostra relazione.
Ora vorrei stringerla, averla con me, chiederle aiuto. 
Vorrei andare in giro con lei per i negozi della città, assaggiare la minestra dallo stesso cucchiaio.
Apro per lei un mondo a parte, dove nessuno può entrare, tranne me. 

Foto archivio GiBi