Il rumore del macchinario giunge come il suono di un grosso martello attraverso la spessa porta dell'ambulatorio.
Io e Ro leggiamo e ogni tanto ci scambiamo qualche pensiero. Nostro figlio è dentro il tubo della macchina per la risonanza magnetica.
La zia, accanto a lui, gli tiene tra le mani un piede, come unico conforto.
I minuti passano lenti e io mi sento serena e leggera, meravigliandomi di queste sensazioni del tutto nuove.
Siamo partiti da casa il giorno prima, nel tardo pomeriggio, un viaggio piacevole lungo la lenta Autostrada dei Fiori che offre cantieri e rallentamenti.
Avevamo deciso di cenare nell'ultimo autogrill prima dell'uscita, ma i discorsi ci avevano distratti. Nell'orecchio la musica e fuori dal finestrino le luci della sera, il porto con le navi da crociera dalle pance piene di cose e persone in partenza per altri destini.
Come un tempo il mio sguardo frugava tra le luci delle finestre, alla ricerca di vite familiari.
Questa vecchia abitudine ormai non è più necessaria alla mia sopravvivenza ma la sensazione di calore che provo verso le fonti luminose svelate dai vetri appannati o dalle persiane socchiuse mi da conforto. Un calore interno mi avvolge, la tensione si allenta e la realtà mi sembra apprezzabile.
Nel padiglione entrano un uomo con un bambino e si accomodano in attesa della risonanza. Impossibile non pensare al momento prima di un referto e all'attimo successivo: basta un soffio e la vita può cambiare. Ma è inutile soffrire preventivamente.
Un tempo ero convinta che se mi fossi tesa all'inverosimile, senza mangiare e senza dormire, regolando il respiro al minimo ed evitando i movimenti, le cose, a seguito di questa sofferenza, sarebbero andate bene e la realtà avrebbe preso la via giusta.
Ora ho capito che la vita non va così, non c'è alcun nesso tra la mia attitudine alla sofferenza e la realtà. Non devo espiare nulla. La scelta di vivere serena è calcolata e imposta dalla volontà, ma concede i suoi frutti.
La casa dell'amica della zia è una piacevole sorpresa. Ampia, in uno stabile in centro, pulita, ordinata, confortevole. I mobili moderni acquisiscono un tono caldo accanto a pezzi antichi. Come quasi sempre mi accade nelle case degli altri, mi metto subito a mio agio e mi sento protetta. Andiamo a cenare in un bar in via xx Settembre, a pochi passi da casa. L'aria è ancora invernale, ma non gelata.
Accanto ai miei cari provo una sconfinata felicità che mi mette di ottimo umore e mi fa godere la birra e la focaccia di Recco.
In casa fa caldo, la portinaia che ci consegna le chiavi mi incuriosisce, pensando alla protagonista dell'Eleganza del riccio. Vorrei aprire la porta della guardiola, sapere cosa c'è dietro, spiare i suoi occhi e conoscere il segreto. Vedo fiori appoggiati a una mensola e la sua fretta di congedarci fa viaggiare la fantasia.
Mi piace dormire in città, avvolta nei rumori momentanei e lontani che cullano senza disturbare. È piacevole essere al sicuro, contornata da migliaia di vite che scorrono vicino, senza vedermi. Sento il loro respiro.
Al mattino l'alba ci accompagna verso il Gaslini.
Luci ancora sonnolente, i fari delle auto che scorrono accanto silenziose. Ecco il mare luminescente, calmo.
Ripenso a come era bello e doloroso sei anni fa quando ero con mio figlio in una stanza del reparto malattie infettive. Sola con lui in un'intimità che non avevo mai provato. Era triste e dolce essere insieme, ci mancavano il papà e la famiglia, ma dalla nostra solitudine imparavamo nuovi percorsi dei sentimenti.
Silenzio. Il macchinario che lo ha inghiottito è fermo.
La porta si apre, lui esce un po' frastornato. La zia è stanca.
Ci dirigiamo verso il padiglione dove si paga il ticket.
Adulti e bambini si affollano in una stanza. Mi sento un numero, faccio parte di una catena, ma io sono tranquilla e non voglio entrare nelle teste di altri genitori, ansia e sofferenza e dolore e silenzio.
Io viaggio leggera per il corridoio, volo verso il responso.
Lungo la scala verde mi guardo intorno: tutto questo non mi appartiene, non è il mio film e sono già fuori nel sole a respirare l'aria in cui si affaccia la primavera.
Una donna con un bimbo di soli quattro mesi aspetta il suo turno. Noi aspettiamo il referto.
L'attesa negli ospedali è un po' sudaticcia e nervosa, ma io so già tutto. Questa volta sono io a decidere le scene future e tutto andrà esattamente come penso.
L'infermiera che arriva con la cartella in mano è cicciottella e sorridente. Un raggio di vita in un ambiente tetro.
Nessuna anomalia.
Esultiamo e quasi corriamo al bar per concederci una bella colazione.
La vita è deliziosa, quando vuole.
La focaccia genovese è sempre buona.
E poi è tutto in discesa.
Foto GiBi