Cervo nella musica e un po' di magia


Da quel sedile di pietra si vedeva la Chiesa dei Corallini.
E il mare.
La musica inondava le mie orecchie ignoranti e il desiderio di essere lontana da tutto si avverava.
Entravo in un sogno magico fatto di luci, pietre, fiori e note.
Erano gli anni Settanta.
Il Festival di Cervo accoglieva musicisti provenienti da tutto il mondo.
La musica classica era una rivelazione.
Cosa avrei dato per poter far volare le mie dita su quel luccicante pianoforte a coda.
Arrivavamo molto presto nel borgo, con la mia famiglia.
Dopo aver arrancato per stradine uscite dal Medioevo e scale e scalette, si raggiungeva quel fantastico balcone sul Mar Ligure.
La luce a poco a poco scendeva, gli azzurri si rincorrevano tra le dolci onde.
I "grandi" andavano a sedersi di sotto, sulle sedie. Noi bambine ci impossessavamo del sedile di pietra, che, ancora oggi, ricoperto di muschi, sta al culmine di due scale. Lì la visuale e l'acustica erano perfette.
Quando ci prospettavano di andare ad assistere a un concerto a Cervo per me era festa grande.
Mi mettevo il vestitino bello, le scarpette scollate, qualche monile e un golfino, perché alla sera una lieve brezza avvolgeva il borgo.
Sàndor Vègh si affacciava dalla finestra della casetta che dava proprio sul palco. Sembrava, insieme alla Chiesa dei Corallini, proteggere con amore quell'angolo di Liguria.
Poi arrivò Alexander Lonquich. Era un giovane molto alto, esile, biondo. Era il fidanzato di nostra cugina.
Io mi sentivo molto importante per questa parentela indiretta e mi sembrava che suonasse anche un po' per me, in fondo ero in qualche modo "parente".
Si abbandonava al pianoforte con tutto se stesso, non capivo se fosse lui a suonarlo o se lo strumento si servisse del suo corpo per emettere quelle note. Ogni singola parte di Alexander si muoveva nella musica, ottenendo misteriose connessioni. Uno spettacolo impressionante che non comprendevo bene, ma che mi affascinava.
Una sera mi trovai seduta tra "i grandi", con mio figlio accanto, proprio davanti al palco.
In prima fila un uomo con il pizzetto. Lo sguardo pronto. L'anima vera di Cervo e del Festival. A lui vola oggi il mio pensiero affettuoso.
Erano passati trenta, quarant'anni anni. Possibile?
Niente sembrava cambiato. Mi girai a guardare la panchina di pietra. Lassù c'era una bimbetta bruna, tutta agghindata, con gli occhi spalancati che abbracciavano la musica di Uto Ughi.
Le feci un cenno di saluto e forse lei ricambiò con un sorriso.

Foto GiBi