Capitolo 7
Raggiungiamo in breve tempo Amarillo e, nonostante non sia la città più bella dello Stato, mi innamoro delle pianure infinite, immaginando cowboys a cavallo, immense bistecche sulla griglia, viaggiatori d’altri tempi pieni di speranze racchiuse nei loro cappelli a larghe tese.
E ci siamo, siamo sulla Route 66, in origine US Highway 66, che è una lunga distesa di asfalto con zone completamente abbandonate, e per questo poeticamente nostalgiche, che si allungava verso Chicago a est e fino a Los Angeles a ovest.
Questa è la vera Strada americana, simbolo di avventura e di speranza, che conserva all’aperto quasi novant’anni di storia.
Fu terminata nel 1938, e fu determinate nella Seconda Guerra Mondiale, quando da Chicago partivano i rifornimenti per i militari di stanza a San Diego.
In seguito accompagnò gli americani che emigravano da est a ovest per cercare fortuna in California, il nuovo Eldorado.
Negli anni Cinquanta aumentarono gli spostamenti e la produzione di auto e il traffico sulla Route divenne intenso e pieno di incidenti.
Nel 1956, quando Eisenhower era Presidente, si decise la sua chiusura e la trasformazione in Interstate a quattro corsie.
Lunghi tratti vennero dismessi e sulle sue sponde tornò la desolazione.
Fortunatamente dal 1994 la Route 66 è diventata monumento nazionale e sotto la protezione del governo federale.
Adrian, dove ci fermiamo per caso a fare carburante, sta al suo esatto centro.
E qui torniamo al film Cars, dove vi avevo lasciati nel capitolo scorso, che, nonostante i nomi fittizi dei luoghi dove si svolgono le vicende, è proprio ispirato da questa strada e da questa zona.
Alcuni cimeli della Route 66 ci fanno sentire proprio in un film: vecchie auto anni Sessanta abbandonate, motel fatiscenti con cartelli pericolanti, casette rurali con annesso piccolo market dai vetri rotti, distributori di carburante della Chevron dalle insegne sbiadite.
Entriamo in uno di questi posti pieni di ciarpame, vetri rotti, materassi abbandonati.
Un tempo erano punti di passaggio, erano vivi, al loro interno vi lavoravano persone e altri mangiavano qualcosa o facevano benzina.
Ed ecco le auto di Cars, vecchie carcasse con sopra il logo della 66, il Fabulous Motel 40 con sotto una maggiolino tutta arrugginita e fascinosa, una cabina telefonica aperta, con l’apparecchio appeso, quasi pronto a funzionare, dal filo penzolante, in diretto contatto con il passato.
Un ristorante di cui si legge solo più STAURAN…, la T a penzoloni e una freccia che rimanda a un parking che non c’è.
Io ci vedo il Passato, che resiste alle intemperie, che non vuole mollare, che urla in un’eco continua: io ci sono! Sono stato importante per voi! Non abbandonatemi!
E qui si innesta il film Cars, in cui si racconta quanto la creazione di una nuova Interstate abbia tagliato fuori tanti paesini, abbia portato alla chiusura di attività commerciali e accompagnato verso la rovina molte famiglie.
Insomma, Adrian non è proprio Radiators Spring, ma ci va molto vicino.
Fotografo tutto il possibile, perché qui non c’è solo un grande passato, ma esiste anche un po’ del mio, fatto di film, serie tv, soap opera, quell’immaginario collettivo che ci siamo formati noi europei, che l’America l’abbiamo vista solo da adulti, e che ci fa strano vederla così coerente con la sua narrazione.
Mi prende un delizioso struggimento che sa di dolce immensità, di arioso tempo infinito, di ruvida terra promessa e di insensata speranza.
Ma è ora di ripartire, la nostra auto Texi fa bip bip e il nostro futuro americano ci attende per nuove avventure.