L'uomo che suonava Beethoven di Jean-Baptiste Andrea - recensione

 


Questa è una bella storia, pubblicata da Einaudi, che racchiude altre storie: piccole matrioske che si infilano una nell’altra, unite dal filo della cattiveria umana, ma anche da gesti eroici, seppur di bambini.
Il protagonista, Joe, è un pianista che suona negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie, ovunque trovi un piano “pubblico”, che chiunque può suonare. 
Ma le melodie che escono dalle sue mani sono solo quelle di Beethoven.
All’apparenza sembra un vecchio originale, con qualche stramba fissazione, ma lui pare consapevole della sua scelta, perché, afferma, sta aspettando una donna da ben cinquant’anni.
Narrato in prima persona, presto il racconto torna indietro nel tempo, quando Joe perse la famiglia in uno schianto aereo e venne spedito in un terribile orfanotrofio in stile dickensiano.
Qui si misura con le vite di altri bambini, che a loro modo esprimono maturità impensabili. 
I nomi dei suoi compagni di sventura hanno un preciso significato che li riporta alle loro caratteristiche.
Lo squallore e la violenza, conditi dai sofisticati, o primitivi a seconda dei casi, mezzi di punizione del reverendo e del sorvegliante, vengono attutiti da una deviazione della sua sorte.
Joe, infatti, proprio perché già pianista di pregio, viene inviato come insegnante in una casa in cui una ragazzina diafana, ricca e viziata non ha alcuna intenzione di imparare a suonare il piano.
Il rapporto tra i due ragazzini evolve, fino a portarli a una decisione estrema. Ma qualcosa va storto.
Intanto la società segreta che si è formata tra gli orfani all’interno dell’istituto religioso, trama una gloriosa fuga, irta di pericoli.
La critica alla fede cieca e ottusa si snoda capitolo dopo capitolo. 
La disumanità che nasce dalla convinzione di essere dalla parte di Dio e quindi del Giusto, porta gli adulti, che dovrebbero accogliere e accudire i bambini, a essere spietati aguzzini.
Molti passaggi sono poetici e scritti con grande cura, il romanzo di Jean-Baptiste Andrea si legge in un soffio, fino all’epilogo, in cui si torna al presente, al vecchio Joe, che svela cosa ci sta a fare attaccato ai pianoforti di mezza Europa, a suonare solo Beethoven.

Frasi che mi sono piaciute:

“Quando quel ragazzo argentino, Barenboim, suona Beethoven, è tutta un’altra storia.”

“Maglioncino verde acqua, pantaloni bianchi, Rose sedeva languida davanti a un pianoforte da studio Kawai, uno strumento da bettola che stonava con i soffitti affrescati e gli angioletti sparpagliati alla rinfusa su rive di gesso.”

“Non ci insegnavano a pensare in grande, a pensare in generale.”

“— Come sono morti i tuoi genitori?

  — Stabat mater dolorosa
       juxta crucem lacrimosa,
      Dum pendebat Filius.

— Non ti va di parlarne?”