La libertà non è ribellione.
La passione è sacrificio, fatica, perseveranza.
L’attenzione e l’intuizione sono alla base della vita.
Il mio sogno… è un incubo.
Non so cosa sia la felicità. Forse un legame sensibile, un volersi bene.
Alle mie figlie voglio trasmettere libertà, leggerezza, impegno.
Quando liberi la parola, l’essere umano sta meglio.
Senza dubbio è uno chef eccezionale, ma anche un filosofo della vita.
I suoi pensieri sono sorprendenti e fanno comprendere che, dietro a un grande successo, c'è un profondo ragionamento.
Le sue analisi comprendono spesso la parola libertà, parola che ha indagato in molte sue declinazioni.
L’intervista al bi-stellato Giuliano Sperandio si svolge nell’accogliente salottino dell’Osteria Paolomaria di Diano Borganzo. Il paesino tra gli ulivi da cui proviene l’Executive Chef del prestigioso e storico ristorante parigino Le Taillevent. Due ore in cui mi ha rivelato alcune parti di sé, senza paura, fidandosi.
Sono certa che ognuno di voi troverà qualche cosa di interessante nelle sue parole.
Il suo successo affonda le radici in una profonda sofferenza, che a sua volta lo ha reso molto sensibile. Una sensibilità che può usare sia a suo vantaggio che contro di sé.
Difficile trovare la via per non farsi male e per trasformare il dolore in serenità.
Lui ci prova.
Conosco Giuliano dal 2009, anno in cui, apprese le sue gesta culinarie nel mondo, avevo chiesto a sua mamma Maria, che lavorava nel Comune di Diano Marina, se il figlio avesse avuto voglia di fare uno show cooking durante la manifestazione Aromatica che stavo organizzando.
Lei rimase quasi stupita dalla mia richiesta, con una riservatezza e modestia che si ritrovano nel figlio, ma presto arrivò la notizia che lo chef, già piuttosto noto, non solo sarebbe venuto, ma non avrebbe chiesto alcun compenso.
Fui colpita dalla sua disponibilità e freschezza. Nella cucina che gli avevamo riservato spopolò letteralmente.
Cucinava con fiori e piante raccolti alla mattina presto, proponendo piatti dalla caratteristica leggerezza ligure, declinati con una fantasia sorprendente.
Con sé aveva portato una splendida ragazza, allora pasticcera, che aveva contribuito a rendere l’incontro unico e prezioso. Ricordatevela.
Passano gli anni, lo seguo su Instagram @sperandiogiuliano e vedo che è diventato il nuovo Dio del Taillevent.
Mi informo sul web, caspita, che carriera! Ha lavorato con chef stellati in giro per il mondo e ora il locale che dirige ha due stelle Michelin, grazie a lui.
Lo contatto: — Credo che verremo a cena da te a Parigi, saremo lì di passaggio.
Risposta dopo pochi minuti: — Che piacere. Mi occuperò al meglio del vostro tavolo. Un abbraccio.
Parliamone. In un baleno arriva la serata a Parigi. Entriamo nel locale deliziosamente ovattato, dorato, profumato.
L’accoglienza è personalizzata, ci accompagnano all’ingresso delle cucine, lo chef vuole salutarci.
Ventisei addetti, vestiti di bianco, pendono dalle sue labbra. Lui, nonostante sia nel mezzo del servizio, ci accoglie a braccia aperte e ci fa dare un’occhiata alla magnificenza di una cucina perfetta. Ma come faranno a rendere lucida e intonsa ogni superficie?
Una volta raggiunto il tavolo, le pietanze che si susseguono sono scoperte di sapori che non penso esistano sulla terra.
Il maître flamba facendo brillare padelle scintillanti, atmosfera gioiosa, leggera. Sembra di essere in un sogno.
La salvietta calda sul tavolo per pulire le mani.
Ogni dettaglio finalizzato a farti sentire a tuo agio.
Nei calici qualche cosa di divino.
Foto finale con lo chef davanti alla scenografica esposizione dei vini retroilluminata. Mi sa che si tratta di una sua idea, poi capirete.
Sentimenti di gratitudine, gioia e condivisione.
Ritorno a casa.
Combinazione della vita, Giuliano torna da sua mamma qualche giorno dopo, nel mio paesino di Borganzo.
Come potrei non intervistarlo per il mio Blog? Mi è sempre sembrato una persona speciale. Scopriamolo.
Gli scrivo di nuovo: — Pensavo, solo se ti fa piacere, di farti un’intervista.
Risponde subito: — Certo! Con piacere. Sono disponibile quando vuoi tu.
Ma dove si è visto uno al suo livello che non se la tira nemmeno un po’?
Eccolo, sorridente, che entra nel locale del nostro borgo, dove tutti passiamo volentieri per un brindisi, un aperitivo o una cenetta.
Paolo e Armando ci fanno accomodare un po’ in disparte e ci offrono un calice che mi auguro scioglierà le nostre parole.
Ma non ce n’è bisogno. In pochi istanti entriamo in sintonia, ci capiamo come vecchi amici.
— Raccontami la tua storia.
Tutto è iniziato con la perdita di papà.
Ero un bambino.
Non me l’hanno detto subito.
Mi sono ritrovato a coprire il dolore mangiando.
Cercavo di saltare la scuola dove non mi sentivo a mio agio e, per farmi perdonare dalla mamma, le facevo sempre trovare qualche cosa di pronto.
Giunto in terza media è arrivata la domandona: cosa vuoi fare da grande?
E cosa può fare uno che non ha molta voglia di studiare?
Lo si manda in una scuola tecnica, nel mio caso, l’alberghiera, visto che già cucinavo.
Non mi piaceva particolarmente lavorare in cucina, ma lo facevo bene, perché mi sembrava di trovare un po’ di me stesso in quella fatica.
La scuola la trovavo noiosa, non mi interessava, ma in quell'ambito ho fatto bellissimi incontri, persone che mi hanno aiutato.
A diciassette anni mi fanno partecipare a un concorso di cucina per scuole europee. Vinco il primo premio. Mi si aprono le porte delle cucine del mondo.
Quasi per gioco ho iniziato a fare piccole esperienze. Come prima cosa ho scelto il posto più difficile, in un hotel a Diano Marina, sapevo che lì non avrei avuto vita facile. Ma lo scelsi proprio per mettermi in gioco.
Poi andai a Montecarlo, Roma, New York, in Toscana, in Svizzera.
In Grecia, in un ristorante giapponese, avevo 24 anni, incrociai la ragazza che è diventata mia moglie - la pasticcera di Aromatica - e con cui ho due figlie.
Se non lo sa lui… temo che sia difficile da raggiungere, per tutti gli altri comuni mortali.
Forse è essere soddisfatti di sé, accogliere, trovare legami sensibili, volersi bene.
— Ma hai un difetto?
Ci pensa qualche secondo, perché non ne ha!
Sono possessivo. Questo deriva dalla perdita paterna che ho subito da piccolo.
— Continuiamo con la tua storia, come sei approdato al Taillevent?
Durante il Covid, quasi per scherzo. Volevo andare via da dove mi trovavo.
Passavo spesso davanti a quell’antico ristorante e sognavo di stare lì. Per me era la Mecca di un cuoco.
Scoprii che la proprietà cercava uno chef per uno dei loro ristoranti.
E, siccome adoro scrivere, per canalizzare le emozioni…
Lui scrive anche di notte, quando torna verso l’una dal lavoro, ed è capace di stare sveglio fino alle tre, per poi alzarsi alle sette. E io, che dico che a volte non ho abbastanza tempo per scrivere… mi vergogno un po’.
… Ho preparato tre fogli: spiegando cos’era stato il Taillevent, cosa era in quel momento e cosa sarebbe stato con me alla direzione.
Li ho lasciati alla proprietà durante il colloquio, specificando che io mi presentavo solo per il Taillevent e non per altri eventuali ristoranti del gruppo.
Mi fecero fare una prova un po' rocambolesca, visto i tempi dell'epidemia: nove piatti preparati in casa, trasportati nello zaino con lo scooter, cucinati su due piastre a induzione in un bistrot, non c'erano locali aperti.
Parigi era deserta, nel mezzo del Covid.
Lui lo pronuncia alla francese, con l’accento sulla i.
Io me lo ero pure preso e non avevo né olfatto né gusto, che sono i sensi più importanti nel mio lavoro. Questo problema, tra l'altro, mi è durato un anno e mezzo, periodo in cui non sentivo più niente, col terrore che i miei sensi fondamentali non sarebbero più tornati.
In pratica quella sera ho cucinato alla cieca, senza poter assaggiare nulla.
E li ho convinti.
Ho firmato il contratto a marzo, abbiamo riaperto a settembre.
— E in quei mesi di attesa, cosa hai fatto?
Ho 'vissuto' il Taillevent chiuso.
Accompagnavo le bambine a scuola e poi entravo nel locale che era in fermento, come clausola avevo chiesto che venisse completamente rifatto.
Mi sedevo su una banquette - un divanetto - e stavo lì per ore per cercare di capire come sarebbe diventato.
La cucina ho voluto pulirla io nei minimi particolari, ho anche usato gli stuzzicadenti.
Volevo che tutto fosse perfetto.
In molti mi dicevano che sarebbe stata una follia, che era un locale invecchiato.
Ma io lo ricostruivo nel mio immaginario, e lo vedevo proprio come doveva essere, giorno dopo giorno.
— Come ti trovi in un ruolo di così grande responsabilità?
Sono il direttore creativo. Se si innescano dinamiche che non mi piacciono, le stoppo immediatamente.
Vivo in osmosi con il mio ristorante: tutto deve girare esattamente come lo decido io. Mi sono sempre sentito a disagio con me stesso e, se mi devo fare male, voglio farlo dagli alti livelli.
Ed ecco che la soavità lascia spazio alla determinazione, su certi argomenti si indurisce, perché per arrivare lì, solo lui può sapere i sacrifici e le difficoltà che ha dovuto superare.
Tra l’altro, la sua conduzione, ha portato due milioni di euro in più all’anno alla proprietà.
— Come fai a reggere ogni giorno ritmi così intensi e rendere tutto perfetto, sia a pranzo che a cena?
Suddivido la giornata in due. Al mattino mi concentro solo sul pranzo. Poi passo alla cena. Non riuscirei a pensare a un’unica, lunga giornata. Spacchettandola riesco ad affrontarla.
— Cosa c’è di tuo nel menu e cosa riporta alla tradizione?
Sento di portare sulle mie spalle l’eccellenza della Francia. Faccio una cucina di filosofia francese che si ritrova nell’immaginario mondiale: esalto il lato ricco, opulento.
Di mio metto anche la ricerca di ingredienti difficili da reperire.
Come i piselli lacrima, che, vi assicuro, sono una delle sette meraviglie del mondo.
E spesso creo menu fatti su misura per i miei ospiti. Per non sbagliare, bisogna fare attenzione alle persone, ai loro desideri.
— Nella tua brigata c’è una collaboratrice speciale.
Emilie Couturier, lavoravamo già insieme otto anni fa, l’ho portata con me. Lei è super. È il mio metronomo. È fragile, è dura. Ci supportiamo umanamente.