Lib-ri e Lib-ertà - Un'esperienza al Circolo dei Lettori di Crespina


Questa volta, cari Lettori, voglio condividere con voi un’esperienza recente e personale: un viaggio di tre giorni che mi ha fatto riflettere, niente di stratosferico, sia chiaro, non c’è giallo, non c’è romance, non c’è thriller. E qui forse taglio fuori una parte di voi che amate le emozioni forti. Ma voglio rischiare.

Nell’impresa in cui mi sono lanciata da un po' di anni, ossia diventare autrice che pubblica i propri lavori, ho conosciuto persone interessanti, con alcune si è instaurato un colloquio quasi giornaliero, sottotraccia, che varia da situazioni legate alla scrittura e alla lettura a eventi personali. Tra queste c’è Eleonora, che fa anche parte di un gruppo di lettura di un paesino vicino a Livorno, Crespina.
Io ed Eleonora abbiamo scritto due romanzi in momenti diversi delle nostre vite, senza conoscerci, ma che curiosamente hanno come protagoniste una bambina, mamme assenti per vari motivi, papà in difficoltà.

Forse la nostra storia personale, che si riverbera nei nostri primi romanzi (di formazione) ci ha unite, fatto sta che dopo un paio di anni di fitta corrispondenza, Eleonora ha fatto pervenire il mio Ladra di mamme al gruppo di lettura che ha anche letto il suo romanzo Frammenti.
Dopo questa esperienza da parte dei Lettori di Crespina, siamo state invitate da parte della coordinatrice, Federica, a parlarne nella biblioteca dove si riuniscono.
Trattandosi di un appuntamento infrasettimanale, per una volta sono partita da sola, senza marito e figli. Un’esperienza che non facevo da anni e che mi ha dato un senso di libertà inaspettato. Ma andiamo per gradi.

Sono partita in treno, perché odio guidare in autostrada. Alla stazione mi ha accompagnata mio figlio diciottenne Riccardo in scooter. E qui ho avuto la sensazione di vederlo adulto, premuroso. C’è stata tra noi una vibrazione diversa dal solito, come se lui fosse la persona matura e io la bambina, sensazione che mi ha ben disposta nei confronti del viaggio.
In treno mi sono buttata a rileggere il romanzo di Eleonora che mi è sembrato ancora più bello e ben costruito. L’ho finito in poco tempo, quando ero quasi arrivata a Livorno, e non mi sono accorta del viaggio e delle ore che passavano.

Giunta in stazione ho scelto di fare una passeggiata fino all’hotel, assaporando la giornata calda e piacevole, le strade piene di traffico, ascoltando il rumore del mio trolley solitario che arrancava sul marciapiede con il suo trrrtatatan.

L’albergo, vicino al mare, aveva un aspetto antico e avvolgente. La mia cameretta si affacciava su una piazza con la fontana e con i vetri chiusi il silenzio era assicurato. Mi sono rilassata sul letto, senza pensare a nulla di particolare, facendomi attraversare dall’emozione nell’incontrare per la prima volta Eleonora che nel frattempo mi mandava messaggini ansiosi.

Una cosa è scriversi e mandarsi WhatsApp vocali, una cosa è trovarsi di persona, con le nostre fisicità, la faccia tridimensionale, i gesti non più congelati dalle foto.
È venuta a prendermi sotto all’albergo e abbracciarci è stato naturale, così come mangiare insieme, bere un bicchiere di vino, fare una passeggiata sul mare di Livorno con il suo inseparabile Vasco, il cane che non ho dovuto guardare negli occhi per non farlo agitare e lui non ha dovuto farmi le feste che di solito mi spaventano. Ci siamo rispettati a vicenda.
Il passaggio dai messaggi ai discorsi di persona è stato facile, come se la Eleonora delle frasi scritte aderisse perfettamente a quella in carne e ossa.

Giunta la sera dell’incontro con i nostri Lettori, ho cercato più volte di comprendere il mio stato d’animo, ma quella solitudine a cui non sono abituata, quei luoghi estranei e pieni di sole, quell’hotel tranquillo, mi hanno portata verso una deriva di serenità che per una volta riempiva la maggior parte di me, mettendo al muro l’ansia che di solito mi divora.

Un grande tavolo di legno ha ospitato pizze, focacce, tortini di patate impareggiabili, persino il castagnaccio che adoro. I Lettori hanno portato cose fatte da loro, accompagnate da vino bianco e rosso.
Intorno a noi centinaia di libri sistemati in ordine in una grande, spettacolare sala che fu un cinema. 
Per farmi coraggio ho pensato a questi libri come a un abbraccio fatto di tutto ciò che mi hanno insegnato, delle parole che mi hanno salvata, delle storie che ho letto e di quelle che non ho ancora letto o che non leggerò mai.
L’occhio mi è caduto, tra tutte quelle coste, proprio su La storia infinita, uno dei libri magici che mi hanno accompagnata nella mia tesi di laurea, fino alla prima pubblicazione, in cui ho inserito alcuni omaggi al romanzo che mi è tanto caro.

Ho pensato che sarebbe stato opportuno bere un paio di bicchieri per farmi forza, ma il calore di queste persone, che forse mi conoscevano già un po’, grazie alla lettura del mio libro, mi ha fatto sentire subito a mio agio. L’atmosfera era di quelle in cui mi lascio andare senza paura, come quando si fa parte di una famiglia e sai che chi ti sta intorno ti prende per come sei e non devi fare proprio nulla per cercare la loro stima, basta essere te stessa.

Dopo la cena sono iniziate le domande a cui io ed Eleonora abbiamo risposto con naturalezza, come se fossimo tra amici curiosi di conoscere anche la nostra storia e cosa c’è dietro alla scrittura, cosa fa l’editor, quante emozioni vere e quanta fantasia si mescolano in un libro.

Al rientro nella mia stanza, sentire i miei familiari, le loro voci, i loro messaggi, mi ha fatto pensare a quanto sia bello avere delle radici, anche quando si è soli e liberi in una grande città.

Ripenso spesso alla biblioteca di Crespina, ai visi di quei Lettori, alle loro domande e alle loro reazioni. Ho una positiva predisposizione verso la nostalgia.
Nella mia mente quelle ore si sono scolpite come un tuffo in un mondo fantastico fatto di Lettori attenti, con cui è facile toccarsi il cuore a vicenda.

In fondo è tutto ciò che desidero dalla scrittura: dare emozioni e riceverne.

E per questo ho scritto queste righe, per fissare un momento, per inviare un ringraziamento, per ripercorrere un’esperienza che non dimenticherò. 
Spero che questo viaggio insieme a me, fatto più che altro di emozioni, vi sia piaciuto.

Artemisia su: La Penna d'Oca


Oggi pubblico il link a una recensione che mi è stata fatta su un bellissimo Blog letterario a cura di autori italiani che vi consiglio di andare a visitare: La Penna d'Oca.

Qui si parla del mio ultimo romanzo La scelta di Artemisia (lo trovate su Amazon) e credo, per chi non l'avesse ancora letto, che potrebbe essere un valido spunto per decidere se può essere un libro di interesse in cui si parla di avventura, di montagna, di una scalata storica e dell'evoluzione della protagonista attraverso scelte non facili per una donna degli anni Sessanta.

Ringrazio tantissimo Giusy Elle per le sue considerazioni dopo la lettura, vi invito ad andarle a vedere direttamente sul Blog.




Intervista con dieci domande all'autore Marco Buttazzi


Un tempo cronista nel Ponente ligure, mio collega al settimanale "La Riviera", eravamo spesso in coppia, lui come fotografo, io come giornalista. Paparazzo accreditato presso i più prestigiosi festival del cinema (Cannes, Venezia) e della canzone (Sanremo), ha amato molto il giornalismo d’inchiesta, avendo avuto come fulgido esempio i due giornalisti del Washington Post che detronizzarono nientemeno che Nixon. Recentemente si è dilettato a scrivere il suo primo romanzo, Le umane imperfezioni, per sottrarsi alla dura realtà quotidiana. E conta di scriverne ancora tanti altri.
Per la foto, anche se è di qualche anno fa, ho voluto assolutamente che Marco mi mandasse quella con il suo sosia, Piero Chiambretti, sono identici, non trovate?

1 Parlami di te, cosa fai e cosa hai fatto nella vita, in particolare spiega cosa ti lega al mondo della narrativa.
Ho sempre avuto a che fare con il giornalismo e, soprattutto, con la fotografia in un’epoca in cui non era digitale e per pubblicarla dovevi saper lavorare in camera oscura. Il mio presente e il mio passato non c’entrano nulla con il mondo della narrativa. Posso però dire che ho la fortuna di possedere una libreria colma di classici della letteratura italiana, francese, tedesca, russa e americana. E sul mio comodino c’è sempre un libro di Pier Paolo Pasolini ad attendermi.

2 Cosa scrivi?
Vorrei scrivere racconti che affrontano temi di carattere sociale: storie di disoccupati, di sfruttati, di sottopagati che non arrivano a fine mese. Ma adoro anche la satira e l’umorismo nero che possono migliorare le condizioni di vita nella nostra società, denunciandone e correggendone le storture. Per esempio, nel cinema si può guardare al Dottor Stranamore di Kubrick, a Divorzio all’Italiana e a Sedotta e Abbandonata di Germi.

3 Il tuo ultimo lavoro di cosa parla?
Il mio ultimo lavoro, che è anche il primo, narra la storia di una giovane coppia in grave crisi dopo otto anni di matrimonio. L’argomento è molto severo e crea un profondo attrito tra i due coniugi che, a lungo andare, non sanno più come gestire al meglio la situazione.

4 Come funziona la tua creatività? Quando scrivi? Dove?
Scrivo quando mi si accende la lampadina ed esclamo “Eureka!”. Ovunque io mi trovi. A qualunque ora del giorno e della notte mi si può trovare con il naso infilato nel vocabolario della Treccani o nel sito web dell’Accademia della Crusca. Sono capace di alzarmi da letto, e riaccendere il computer alle quattro del mattino, perché mi è venuto in mente il vocabolo da usare in una particolare situazione.

5 Quale pensi che sia il tuo pubblico?
Posso dirti quale non è: i lettori che hanno meno di vent’anni. Ma per cogliere appieno le allusioni e apprezzare le sfumature del mio testo bisogna averne almeno il doppio. Quindi il mio pubblico di riferimento ha quarant’anni.

6 Come trovi l’ispirazione?
Tentando di ricordare dei film dove il problema di una certa scena o di un certo dialogo sono già stati affrontati e risolti. Tutto quello che ho scritto finora è pieno di minuscole citazioni di classici del cinema, ma non li menziono tutti perché altrimenti dovrei scrivere un libro a parte. Mi limito a indicarne soltanto alcuni e generalmente servono allo scopo. Talvolta mi aprono la strada verso percorsi inesplorati.

7 La cosa più pazza che fai quando scrivi?
Esigo il più totale silenzio. Ma siccome i telefoni hanno lo strano vizio di squillare proprio quando sono maggiormente ispirato, spengo almeno il mio. Tuttavia c’è anche quello di mia moglie da silenziare, ma non si può. Così non mi resta che una soluzione: scrivere alle cinque del mattino, quando si presume che stiano tutti dormendo nel raggio di qualche centinaio di metri...

8 Utilizzi beta reader, come ti trovi?
Benissimo! Sono due ottime collaboratrici con le quali l’intesa è perfetta. Lo devo ammettere: se sopportano un orso come me, non possono che avere la vocazione al martirio.

9 Cosa pensi dell’editoria attuale?
Non mi sono ancora fatto pienamente un’idea. L’editore mi sembra però una versione edulcorata del produttore cinematografico. Dopotutto un libro costa molto meno di un film, quindi il rischio per l’editore è decisamente inferiore.

10 Sei un esperto cinefilo. Analogie tra mondo della letteratura e cinema. Quali sono i punti d’incontro e in cosa si differenziano?
Fino a poco tempo fa ti avrei risposto senza indugio che le differenze erano abissali. Oggi ne sono meno convinto. Certamente il film è una storia narrata per immagini, e il romanzo per parole scritte su carta, ma la differenza si sta assottigliando sempre più.

Foto archivio Marco Buttazzi

La magia di Torino: un imprenditore, un castello gotico, alcune opere d'arte e un autore al Balon.


Vi voglio raccontare un’esperienza che ho fatto nella magica Torino, dove sono andata a maggio per il Salone del Libro.
In questa occasione sono salita in cima al Lingotto, sulla pista in cui testavano le nuove Fiat, da dove si può godere la vista della città.
Un mio caro amico che ci scortava ci ha fatto notare la villa di Riccardo Gualino, che pochi conoscono, un personaggio a cui tengo e che, stranamente, ha affascinato anche lui e la moglie, con cui abbiamo scoperto di avere questo interesse in comune.
Gualino era un importante imprenditore dei primi del Novecento, una specie di Olivetti antesignano, di cui mi sono occupata in questo Blog tempo fa, in quanto avevo scoperto l’incredibile castello ideato e fatto costruire da lui a Cereseto, un paesino del Piemonte. 
Se volete conoscere questa storia e avere più notizie del Riccardo, cliccate su questo link.
Tornando a Torino, che mi sembra sempre più affascinante, abbiamo approfittato della bontà dei nostri amici per visitare con loro la mostra permanente del lascito dell’imprenditore e collezionista d’arte, insieme alla moglie Cesarina Gurgo, nei Musei Reali.
Capolavori di Duccio da Boninsegna, Veronese, Manet, Monet, Casorati, cassapanche di legno, una Venere di Botticelli di una bellezza morbida e diafana, un sarcofago romano che stava nel castello insieme a una pallida fontana sorretta da angeli, il Buddha in meditazione, la Sofonisba morente, solo per fare qualche esempio, ci hanno riportato ai fasti dei ruggenti anni Venti, in cui tutto sembrava possibile.
Dovete sapere che su Gualino, personaggio eclettico e davvero interessante, ho un libro: Il grande Gualino, di Giorgio Caponetti, il quale ha fatto una cavalcata lunga più di quattrocento pagine per raccontare le imprese di quell’uomo particolare, elegante, viveur, capace di risorgere dalle sue ceneri e anche un po’ misterioso.
Dico misterioso, perché pare che le sue ville sparse, castello compreso, non riescano più a essere ricollocate sul mercato a causa di una sua maledizione su ciò che gli apparteneva e che gli era stato sottratto perché non allineato al potere.
Ad alimentare la magia tipicamente torinese che aleggia sulla città e sull’imprenditore, dopo la nostra visita al museo, siamo andati nel coloratissimo quartiere del Balon, il mercato delle Pulci di Porta Palazzo.
E, mentre ci aggiravamo attratti da vecchi mobili, libri antichi, suppellettili usciti da chissà quali cantine e soffitte, ecco che avanza uno strano personaggio vestito di scuro, con paglietta in testa, baffetti e barba incolti, bretelle e una giacca buttata su una spalla.
«Ma è Giorgio Caponetti!» Lo riconosce il nostro amico, torinese doc.
L’autore della biografia romanzata di Gualino! Penso io. Non è possibile!
Ci fermiamo a chiacchierare con lui, io sempre più stupita da una tale coincidenza… Voglio dire, Torino è grande!
Non so perché la storia di quest’uomo continui a tornare. Forse perché il caso vuole che, da quando ho scoperto il gotico castello a Cereseto, succedano cose come questa.
Non so se siete attratti dalle storie inquietanti, ma io in giardino ho un pezzo di mattone trovato nei pressi del suo castello fatiscente che avevo trovato per terra. Credo proprio che, quando passo di lì, si illumini, forse per ricordarmi di lui, che probabilmente da lassù vuole dirci ancora qualcosa.
La storia di Riccardo Gualino, sul mio Blog, è quella più letta in assoluto e spero che anche questo racconto della mia esperienza torinese vi sia piaciuto.
Per scrivere ho bisogno di accedere a una realtà differente e spero che mi vogliate seguire, come se fossimo insieme sulla scia di una stella.

Foto GB

L'enigma dei tre Eddie di Antonio Biggio - recensione


Sono giunta al terzo romanzo a sfondo musicale, in cui gli strepitosi Iron Maiden partecipano ancora una volta, e forse l’ultima, alle avventure del detective Andrew Briggs. 

Una trilogia distribuita in oltre trenta paesi nel mondo.

Il romanzo cartaceo si snoda attraverso 422 pagine, quindi è bello “cicciotto” e permette al lettore di accomodarsi all’interno della storia, cosa che, se il libro è bello come in questo caso, mi fa ringraziare  l’autore per tutto il tempo.

Come riuscire a mettere insieme con cognizione di causa e descrizioni accattivanti la Polonia, lo Yorkshire, la Florida, l’Unione Sovietica, Londra, la Germania, la Lapponia e il Mare del Nord? Solo Antonio Biggio ce la poteva fare, con il suo tipico conto alla rovescia dei giorni che si rincorrono all’indietro, in una corsa mozzafiato verso l’epilogo che potrebbe essere tragico.

Siamo nel 1984, anno iconico, la Guerra Fredda fa paura, nel mondo si aggirano figure inquietanti che potrebbero trascinare la terra verso la distruzione totale.

Un filo rosso accompagna le vicende dell’investigatore, che parte da un omicidio nello Yorkshire per attraversare il buio che porta l’umanità dritta verso la catastrofe, al suono della musica dei suoi beniamini, unici occidentali a tentare un concerto in Polonia, oltre la Cortina di Ferro. Un evento epocale che può far tremare i difficili equilibri tra est e ovest.

Tre tatuaggi, i tre Eddie, mascotte e simbolo della copertina del singolo The Trooper, la costruzione di una testata nucleare, il rapimento di uno zio, il desiderio irrefrenabile di assistere a un concerto unico. Torture, morti, interrogatori, spie, depistaggi, ogni pagina è condita a dovere per tenere in pugno il lettore.

Ma chi è il “Postino”? O forse è meglio chiedersi: cosa è?

Ogni personaggio cerca di seguire la sua strada, incontrando o scontrandosi con gli altri, ma è l’autore, ben nascosto dietro alle pagine, che sapientemente tira le fila di ogni storia.

La trasformazione del protagonista Andrew, reduce da un grande dolore, avviene attraverso la consapevolezza, il lavoro, gli amici. Il suo ritorno alla vita è puro amore: arrivate all’ultima pagina per gustare appieno ogni sfumatura di questo bellissimo, complesso romanzo che contiene storia, avventura, azione, musica, suspense.

E alla fine, tra tutti gli enigmi che l’investigatore riesce a risolvere, è proprio quello dell’amore che rimane, ma solo apparentemente, insoluto.

Nomi tra le righe. Alla scoperta delle storie dietro ai nomi dei miei personaggi

Spesso mi chiedono come mai, per i miei personaggi, scelgo nomi poco comuni. Ecco alcune motivazioni, spero che vi intrighino.

Elenia - La protagonista del primo romanzo “Ladra di mamme”. Questo nome strano girava in famiglia da anni e ho pensato che fosse abbastanza particolare per essere ricordato dai miei lettori.
Frase dal libro: Sono convinto che il destino di una persona sia nel nome. Come si fa a chiamare una bambina Elenia? Che nome è? Da dove viene? Avrebbero potuto chiamarla Elena, per esempio. Io avrei scelto qualcosa di antico e di nobile tipo Berenice, Luisa, Lucrezia, Ottavia, Cornelia, se solo mi avessero interpellato.

Artemisia - La mamma di Elenia. Questo nome l’ho scelto perché lei è una pittrice e il rimando ad Artemisia Gentileschi è facile. Mi è sembrato carino pensare anche all’aspetto grafico dell’iniziale “A” che ha la forma di una montagna: lei è pure alpinista ed è la protagonista del secondo romanzo: “La scelta di Artemisia”.
Frase dal libro: «Curioso come i nostri nomi inizino per la lettera ‘A’: a modo nostro siamo due piccole montagne. Spero proprio, con la scalata che ho in programma, di arrivare in cima alla mia vetta personale, che è quella interiore.»

Fedra - La madre di Artemisia, nonna di Elenia. Questo nome mi sembra adatto per il suo alone teatrale e drammatico. Fedra è una gran dama, abituata a comandare, autoritaria, scaltra, manipolatrice. È un personaggio che piace molto ai lettori perché è dotata di ironia e colleziona strani cappellini. In realtà non è esattamente come sembra: la sua backstory l’ha condizionata parecchio…
Frase dal libro: Fedra non perde tempo a sbattermi in faccia il suo punto di vista: «Arturo, ci abbiamo pensato bene, siamo convinti che la soluzione più indicata sia che Elenia venga affidata a noi. È evidente che tu non sei in grado di gestirla, tra il lavoro che ti occupa tutta la giornata e il fatto che sei un uomo. La potrai vedere nei fine settimana.»

Sebastiano - Lo zio di Elenia, fratello di Arturo. Non posso negare di adorare il romanzo “La storia infinita” per la ricchezza di spunti che offre e per il fatto che è il vero e unico libro infinito presente nella mia vita. Molti sono gli omaggi che ho fatto a Michael Ende, l’autore, e, tra questi, il nome dello zio che è quello del protagonista della Storia infinita. Sebastiano è un uomo riservato, timido, forse un po’ infatuato di Artemisia, con un tragico difetto fatale.
Frase dal libro: Mi avvicino alla bara: è di legno chiaro, dentro c’è una persona rannicchiata e scomposta, sangue rappreso. Riconosco i suoi capelli. Ma non sembra lei. Lei era sempre in ordine, elegante. Gli abiti, che qualcuno ha portato per il cambio, sono arrotolati in fondo alla cassa. Non sono riusciti a cambiarle i vestiti.
Mi colpiscono come una sberla gli scarponi ancora ai suoi piedi: li tocco. Chiudo gli occhi. Lì dentro c’è Artemisia. Dentro agli scarponi c’è Artemisia.»

Gene e Asia - Un gioco riferito alla fiaba di Cenerentola. Elenia ha due sorellastre e l’affinità dei nomi con Genoveffa e Anastasia mi è sembrata divertente. Asia nel racconto è una bella bambina silenziosa, niente a che vedere con le sorellastre. E Gene è appena nata ma… Non posso spoilerare. Nel terzo romanzo, che sto scrivendo, accadranno cose terribili…
Frase dal libro: Asia ha un vestitino giallo limone, io un abito bianco e blu con tre fiorellini applicati al centro. In testa due fiocchetti. I nostri capelli sono molto differenti: li abbiamo tutte e due lisci, ma i suoi sono lunghi fili di seta chiara, i miei code di topo.
«È nata una bella bambina! È nata Gene!» È tutto buio, è ancora notte, mi alzo dal letto, inciampo e cado addosso ad Asia che non si sveglia, la scrollo. «Asia, Asia, è nata nostra sorella! Svegliati.»

Mariagrazia - Questo personaggio che compare ne “La scelta di Artemisia”, è un’alpinista e crocerossina. Una reale Mariagrazia mi ha regalato un’ora bellissima davanti a un caffè per raccontarmi come erano le donne alpiniste degli anni Sessanta. Le sue storie mi hanno emozionata e spero che la Mariagrazia del romanzo le somigli un po’.
Frase dal libro: «E tua mamma, ti fa fare tutte queste cose?» Artemisia era interessata.
«Sai cosa mi ha detto un giorno?»
Artemisia la guardò, lottando con il bottone della camicetta.
«Mi ha detto: ‘Mariagrazia, ho tanta fiducia in te.»
Artemisia ebbe un tuffo al cuore. Cosa darei per sentirmi dire una frase così da mia madre.

Vi sono piaciuti i "perché" dei nomi di alcuni personaggi dei miei romanzi? Nel nuovo libro ce ne saranno molti altri, per ora non li svelo.
Se avete altre domande scrivetemi. Sul sito web trovate la mia mail e l'iscrizione alle newsletter. 

Immagine generata con l'ausilio  di AI

Lo strano caso della rivolta del Giornalista


Ogni tanto il Giornalista insorge.
Questo è uno di quei periodi in cui il suo strano e ondivago disagio emerge da sotto le acque chete.
Certo che io sto dalla sua parte. Certo che il Giornalista deve essere libero, deve poter far sentire la lsua voce e poter raccontare i fatti.
Per me essere Giornalista significa spiegare gli avvenimenti, così come sono, non come qualcuno desidera che vengano interpretati.
Significa indagare, interrogare, intervistare, conoscere e poi cercare di fornire al lettore una verità più possibile vicino… alla verità.
E questo sempre, non solo a volte.
Se si ha un minimo di discernimento, è alla luce del sole l’interpretazione personale della notizia, e a mio avviso, nella maggior parte dei casi, finalizzata a produrre consenso o dissenso verso questa o quell’area politica.
Mi sono sempre aspettata da questa categoria una libertà mentale, una capacità di soffrire perché potenzialmente ‘attaccata’ da più parti, una dedizione al lavoro che, più che un vanto, dovrebbe essere un onore.
Invece, quasi dovunque mi giri, vedo il Giornalista impegnato politicamente, non importa dove, ma legato a un’area politica piuttosto che a un’altra.
È chiaro che se il Giornalista appartiene in qualche modo all’ideologia dei verde ramarro (per usare un colore che credo non ci sia in politica) cercherà di mettere in luce i verde ramarro, e di screditare i rosa antico, loro acerrimi nemici.
E allora? Se a me piacessero i verde ramarro, dovrei ascoltare solo la loro campana, il loro ‘Giornalista - altoparlante’ in modo da essere rassicurata e confortata? E godrei nel vedere schiacciati i rosa antico dalla dialettica del mio Giornalista preferito?
Qualunque persona pensante e di buon senso direbbe: ma io voglio ascoltare tutte le campane, il mio Giornalista preferito mi deve raccontare la verità, anche nel caso in cui i verde ramarro facciano qualche cosa di brutto che potrebbe non piacermi.
Ma non è così.
Quelli che tengono (come per una squadra di calcio) per i verde ramarro comprano i giornali o guardano spettacoli o tg legati alla loro ideologia (ammesso che si possa parlare di ideologie, al giorno d’oggi), mentre quelli che sono legati alla squadra dei rosa antico leggono solo i loro commentatori.
Così tutto è appiattito, ognuno si sente raccontare ciò che vuole e trova qualcuno da odiare, per il benestare dei verde ramarro e dei rosa antico che si passano la palla e se la godono, usando il bravo Giornalista come vettore, alle spalle dei loro sostenitori che pagano il loro benessere ignari e ignavi.
Così i giornali o le televisioni - emanazione dei partiti mi fanno venire i nervi. Non c’è niente da fare.
Per comprendere cosa accade dovrei passare la giornata a cercare mille fonti, a valutare le varie opinioni, a riassumere i fatti, cioè, dovrei fare ciò che dovrebbe fare il bravo Giornalista per me, che pago la sua notizia.
Quindi?
Quindi non sono più Giornalista da tempo e cerco di tenermi alla larga dalle notizie. Non ne posso più.
Comunque il Giornalista fa bene a insorgere, non so bene per cosa, vista l'atavica situazione di dipendenza dal potere, ma fa bene. Gli credo sulla parola, anche se è verde ramarro o rosa antico.
Temo solo che ora sia un po’ tardi per rivendicare la sua libertà.
Anche se sarebbe bello se insorgesse davvero, e iniziasse a lavorare in maniera indipendente.
In questo caso mi farei dei pop corn e mi metterei alla lettura o all’ascolto del mio Giornalista e, forse, nascerebbe anche un po' di stima per il suo duro lavoro.

Immagine creata con AI


Lo Chef delle Stelle


  Intervista a Giuliano Sperandio  
Executive Chef del ristorante Le Taillevent di Parigi 

Coprivo il dolore mangiando.
Potrei fare qualunque cosa, basta che sia manuale e che comporti un coinvolgimento passionale.
Più che fare da mangiare, aspiro alla bellezza dell’essere umano.
La libertà non è ribellione.
La passione è sacrificio, fatica, perseveranza.
L’attenzione e l’intuizione sono alla base della vita.
Il mio sogno… è un incubo.
Non so cosa sia la felicità. Forse un legame sensibile, un volersi bene.
Alle mie figlie voglio trasmettere libertà, leggerezza, impegno.
Quando liberi la parola, l’essere umano sta meglio.

Senza dubbio è uno chef eccezionale, ma anche un filosofo della vita. 
I suoi pensieri sono sorprendenti e fanno comprendere che, dietro a un grande successo, c'è un profondo ragionamento.
Le sue analisi comprendono spesso la parola libertà, parola che ha indagato in molte sue declinazioni.
L’intervista al bi-stellato Giuliano Sperandio si svolge nell’accogliente salottino dell’Osteria Paolomaria di Diano Borganzo. Il paesino tra gli ulivi da cui proviene l’Executive Chef del prestigioso e storico ristorante parigino Le Taillevent. Due ore in cui mi ha rivelato alcune parti di sé, senza paura, fidandosi. 
Sono certa che ognuno di voi troverà qualche cosa di interessante nelle sue parole.
Il suo successo affonda le radici in una profonda sofferenza, che a sua volta lo ha reso molto sensibile. Una sensibilità che può usare sia a suo vantaggio che contro di sé. 
Difficile trovare la via per non farsi male e per trasformare il dolore in serenità. 
Lui ci prova.

Conosco Giuliano dal 2009, anno in cui, apprese le sue gesta culinarie nel mondo, avevo chiesto a sua mamma Maria, che lavorava nel Comune di Diano Marina, se il figlio avesse avuto voglia di fare uno show cooking durante la manifestazione Aromatica che stavo organizzando.
Lei rimase quasi stupita dalla mia richiesta, con una riservatezza e modestia che si ritrovano nel figlio, ma presto arrivò la notizia che lo chef, già piuttosto noto, non solo sarebbe venuto, ma non avrebbe chiesto alcun compenso.
Fui colpita dalla sua disponibilità e freschezza. Nella cucina che gli avevamo riservato spopolò letteralmente. 
Cucinava con fiori e piante raccolti alla mattina presto, proponendo piatti dalla caratteristica leggerezza ligure, declinati con una fantasia sorprendente.
Con sé aveva portato una splendida ragazza, allora pasticcera, che aveva contribuito a rendere l’incontro unico e prezioso. Ricordatevela.

Passano gli anni, lo seguo su Instagram @sperandiogiuliano e vedo che è diventato il nuovo Dio del Taillevent. 
Mi informo sul web, caspita, che carriera! Ha lavorato con chef stellati in giro per il mondo e ora il locale che dirige ha due stelle Michelin, grazie a lui.

Lo contatto: — Credo che verremo a cena da te a Parigi, saremo lì di passaggio.
Risposta dopo pochi minuti: — Che piacere. Mi occuperò al meglio del vostro tavolo. Un abbraccio.

Parliamone. In un baleno arriva la serata a Parigi. Entriamo nel locale deliziosamente ovattato, dorato, profumato. 
L’accoglienza è personalizzata, ci accompagnano all’ingresso delle cucine, lo chef vuole salutarci. 
Ventisei addetti, vestiti di bianco, pendono dalle sue labbra. Lui, nonostante sia nel mezzo del servizio, ci accoglie a braccia aperte e ci fa dare un’occhiata alla magnificenza di una cucina perfetta. Ma come faranno a rendere lucida e intonsa ogni superficie?
Una volta raggiunto il tavolo, le pietanze che si susseguono sono scoperte di sapori che non penso esistano sulla terra. 
Il maître flamba facendo brillare padelle scintillanti, atmosfera gioiosa, leggera. Sembra di essere in un sogno. 
La salvietta calda sul tavolo per pulire le mani. 
Ogni dettaglio finalizzato a farti sentire a tuo agio.
Nei calici qualche cosa di divino.
Foto finale con lo chef davanti alla scenografica esposizione dei vini retroilluminata. Mi sa che si tratta di una sua idea, poi capirete.
Sentimenti di gratitudine, gioia e condivisione.
Ritorno a casa.
Combinazione della vita, Giuliano torna da sua mamma qualche giorno dopo, nel mio paesino di Borganzo.
Come potrei non intervistarlo per il mio Blog? Mi è sempre sembrato una persona speciale. Scopriamolo.

Gli scrivo di nuovo: — Pensavo, solo se ti fa piacere, di farti un’intervista.
Risponde subito: — Certo! Con piacere. Sono disponibile quando vuoi tu.

Ma dove si è visto uno al suo livello che non se la tira nemmeno un po’?
Eccolo, sorridente, che entra nel locale del nostro borgo, dove tutti passiamo volentieri per un brindisi, un aperitivo o una cenetta.
Paolo e Armando ci fanno accomodare un po’ in disparte e ci offrono un calice che mi auguro scioglierà le nostre parole.
Ma non ce n’è bisogno. In pochi istanti entriamo in sintonia, ci capiamo come vecchi amici.

— Raccontami la tua storia.
Tutto è iniziato con la perdita di papà. 
Ero un bambino. 
Non me l’hanno detto subito. 
Mi sono ritrovato a coprire il dolore mangiando. 
Cercavo di saltare la scuola dove non mi sentivo a mio agio e, per farmi perdonare dalla mamma, le facevo sempre trovare qualche cosa di pronto.
Giunto in terza media è arrivata la domandona: cosa vuoi fare da grande? 
E cosa può fare uno che non ha molta voglia di studiare? 
Lo si manda in una scuola tecnica, nel mio caso, l’alberghiera, visto che già cucinavo.
Non mi piaceva particolarmente lavorare in cucina, ma lo facevo bene, perché mi sembrava di trovare un po’ di me stesso in quella fatica.
La scuola la trovavo noiosa, non mi interessava, ma in quell'ambito ho fatto bellissimi incontri, persone che mi hanno aiutato.
A diciassette anni mi fanno partecipare a un concorso di cucina per scuole europee. Vinco il primo premio. Mi si aprono le porte delle cucine del mondo.
Quasi per gioco ho iniziato a fare piccole esperienze. Come prima cosa ho scelto il posto più difficile, in un hotel a Diano Marina, sapevo che lì non avrei avuto vita facile. Ma lo scelsi proprio per mettermi in gioco. 
Poi andai a Montecarlo, Roma, New York, in Toscana, in Svizzera. 
In Grecia, in un ristorante giapponese, avevo 24 anni, incrociai la ragazza che è diventata mia moglie  - la pasticcera di Aromatica - e con cui ho due figlie.
Anelavo a raggiungere l’alto livello.

— Quante lingue parli?
Tre e mezzo: italiano, francese, spagnolo e inglese, ma un po’ meno bene. 
Me lo immagino…
Mia moglie, essendo argentina, con le nostre due figlie parla in spagnolo, con me invece parlano italiano. Al lavoro e a scuola parliamo tutti francese.

Conveniamo che conoscere più lingue apre la mente, che certi concetti vengono espressi in maniera specifica solo in una determinata lingua, o dialetto, che la ricchezza, che deriva dalla diversità, arricchisce.

— Il tuo sogno vero?
È un incubo. 
Sorride… meno male. 
Perché il mio sogno era che non volevo deludere.
Sono molto sensibile e ho sempre dovuto prendere molte decisioni. In effetti il sogno si è avverato, sono più di ciò che volevo essere. 
Non gli credo fino in fondo, sono certa che da sé pretenderà ancora di più.

— E, a proposito di incubi, quali sono i tuoi?
Di notte sogno di non riuscire ad alzarmi, sono completamente bloccato, oppure ho dei vetri rotti in bocca, non posso parlare.
La moglie ora è psicoterapeuta, ha abbandonato la pasticceria… tranquilli, lui è in buone mani!

— Cosa è la felicità?
Non lo so. 
Se non lo sa lui… temo che sia difficile da raggiungere, per tutti gli altri comuni mortali.
Forse è essere soddisfatti di sé, accogliere, trovare legami sensibili, volersi bene.

— Ma hai un difetto?
Ci pensa qualche secondo, perché non ne ha!
Sono possessivo. Questo deriva dalla perdita paterna che ho subito da piccolo.

— Continuiamo con la tua storia, come sei approdato al Taillevent?
Durante il Covid, quasi per scherzo. Volevo andare via da dove mi trovavo.
Passavo spesso davanti a quell’antico ristorante e sognavo di stare lì. Per me era la Mecca di un cuoco. 
Scoprii che la proprietà cercava uno chef per uno dei loro ristoranti.
E, siccome adoro scrivere, per canalizzare le emozioni…
Lui scrive anche di notte, quando torna verso l’una dal lavoro, ed è capace di stare sveglio fino alle tre, per poi alzarsi alle sette. E io, che dico che a volte non ho abbastanza tempo per scrivere… mi vergogno un po’.
… Ho preparato tre fogli: spiegando cos’era stato il Taillevent, cosa era in quel momento e cosa sarebbe stato con me alla direzione.
Li ho lasciati alla proprietà durante il colloquio, specificando che io mi presentavo solo per il Taillevent e non per altri eventuali ristoranti del gruppo.
Mi fecero fare una prova un po' rocambolesca, visto i tempi dell'epidemia: nove piatti preparati in casa, trasportati nello zaino con lo scooter, cucinati su due piastre a induzione in un bistrot, non c'erano locali aperti.
Parigi era deserta, nel mezzo del Covid. 
Lui lo pronuncia alla francese, con l’accento sulla i.
Io me lo ero pure preso e non avevo né olfatto né gusto, che sono i sensi più importanti nel mio lavoro. Questo problema, tra l'altro, mi è durato un anno e mezzo, periodo in cui non sentivo più niente, col terrore che i miei sensi fondamentali non sarebbero più tornati.
In pratica quella sera ho cucinato alla cieca, senza poter assaggiare nulla.
E li ho convinti.
Ho firmato il contratto a marzo, abbiamo riaperto a settembre.

— E in quei mesi di attesa, cosa hai fatto?
Ho 'vissuto' il Taillevent chiuso.
Accompagnavo le bambine a scuola e poi entravo nel locale che era in fermento, come clausola avevo chiesto che venisse completamente rifatto. 
Mi sedevo su una banquette - un divanetto - e stavo lì per ore per cercare di capire come sarebbe diventato. 
La cucina ho voluto pulirla io nei minimi particolari, ho anche usato gli stuzzicadenti. 
Volevo che tutto fosse perfetto.
In molti mi dicevano che sarebbe stata una follia, che era un locale invecchiato.
Ma io lo ricostruivo nel mio immaginario, e lo vedevo proprio come doveva essere, giorno dopo giorno.

— Come ti trovi in un ruolo di così grande responsabilità?
Sono il direttore creativo. Se si innescano dinamiche che non mi piacciono, le stoppo immediatamente. 
Vivo in osmosi con il mio ristorante: tutto deve girare esattamente come lo decido io. Mi sono sempre sentito a disagio con me stesso e, se mi devo fare male, voglio farlo dagli alti livelli.
Ed ecco che la soavità lascia spazio alla determinazione, su certi argomenti si indurisce, perché per arrivare lì, solo lui può sapere i sacrifici e le difficoltà che ha dovuto superare.
Tra l’altro, la sua conduzione, ha portato due milioni di euro in più all’anno alla proprietà.

— Come fai a reggere ogni giorno ritmi così intensi e rendere tutto perfetto, sia a pranzo che a cena?
Suddivido la giornata in due. Al mattino mi concentro solo sul pranzo. Poi passo alla cena. Non riuscirei a pensare a un’unica, lunga giornata. Spacchettandola riesco ad affrontarla.

— Cosa c’è di tuo nel menu e cosa riporta alla tradizione?
Sento di portare sulle mie spalle l’eccellenza della Francia. Faccio una cucina di filosofia francese che si ritrova nell’immaginario mondiale: esalto il lato ricco, opulento. 
Di mio metto anche la ricerca di ingredienti difficili da reperire.
Come i piselli lacrima, che, vi assicuro, sono una delle sette meraviglie del mondo.
E spesso creo menu fatti su misura per i miei ospiti. Per non sbagliare, bisogna fare attenzione alle persone, ai loro desideri.

— Nella tua brigata c’è una collaboratrice speciale.
Emilie Couturier, lavoravamo già insieme otto anni fa, l’ho portata con me. Lei è super. È il mio metronomo. È fragile, è dura. Ci supportiamo umanamente.

— Ci sarà un momento in cui deciderai di terminare i tuoi tour de force? E se sì, cosa vorresti fare?
Per ora mi sento a metà del viaggio. Il mio intento è rendere tutto più leggero: il cibo, l’atmosfera, i rapporti. 
La leggerezza salva il mondo.
Ma, una volta giunto a destinazione nella mia carriera, aprirei un ristorante in spiaggia. Proprio qui in Liguria, vicino a casa. E farei ciò che si aspetta un bagnante: fritture, insalate, crudo di mare, panini e offrirei gelati confezionati per i bambini. 
Lo farò quando sarò in pensione.
Lo dice con un’aria divertita e mi sa che lo farà davvero. Se sarò ancora viva, vista la differenza di età, mi sono già prenotata come prima cliente.

— Cosa vuoi trasmettere alle tue figlie?
La libertà, la leggerezza, l’impegno, che si accettino per come sono. Hanno scoperto su Google cosa faccio, non ne avevano idea. È stato divertente, ora sono fiere di me. 
Mi batterò affinché in casa abbiano un esempio  che potranno seguire. 
Avere e dare attenzione.

— Parliamo dei dipendenti, come li recluti?
Quando sono arrivato al mio ristorante, ho dovuto costruire la brigata da zero. Ora ne ho ventisei da gestire. E la maggior parte, alla fine del loro percorso, li devo mandare via io. 
Di solito non guardo il curriculum, ma voglio capire dal colloquio, momento molto importante, se quel giovane è davvero determinato. 
Quando liberi la parola, l’essere umano sta meglio, è evidente. 
In queste situazioni entro nel mio ruolo del rigore, in cui chi lavora con me viene rispettato, ma deve dare il massimo. 
E mi racconta un paio di aneddoti in cui, come mentore per i giovani che vogliono intraprendere un lavoro in cucina, non è affatto male.
Dal dopoguerra, ogni generazione è scesa di un livello nella richiesta di determinazione nei giovani. Non è quindi colpa loro se oggi non sono tutti abbastanza motivati e disposti a soffrire.

— Cosa consiglieresti a un giovane aspirante cuoco?
Tra l’arroganza e l’ambizione e tra la presunzione e la consapevolezza c’è un filo sottile che bisogna comprendere prima possibile.
Non so se il giovane aspirante cuoco possa già comprendere certe sottigliezze, ma caro, se sei lì che leggi, sai cosa fare!

— Cosa è la libertà?
È un tema molto interessante. Che si riallaccia ai giovani. La libertà non è ribellione, non è promiscuità sessuale o cose del genere. Se sei connesso con la tua anima, allora sei libero. Anelo alla libertà pura, che si trasforma in rigore puro.

— E la passione?
La passione è una falsa definizione del piacere di fare qualcosa. La passione è sacrificio, fatica, perseveranza.

— Cosa diresti a un te stesso del passato, del presente e del futuro?
A me del passato: Ce la puoi fare. Guarda avanti e fallo senza limiti!
A me del presente: Adesso sei a casa, e, per questo, liberati!
A me del futuro: Abbiamo fatto tutto?

— Nella prima edizione di Aromatica ti avevo fatto incontrare Libereso Guglielmi, perché, nel vostro candore consapevole, mi sembrava che aveste qualcosa in comune.
Me lo ricordo benissimo. 
Libereso viveva della sua passione, è stato bello incontrare un uomo che per comunicare con gli altri usava le piante.

— Dimmi la verità, aspiri alla terza stella?
Fino alla settimana scorsa, no. 
Sorride con un brillio negli occhi. 
Però sì.
Sono qui in vacanza per meditare sulle prossime scelte.
Le stelle fanno la differenza. 
E io sono cresciuto nella 'mentalità della stella'.

Quale immagine più poetica poteva scegliere?

























25 Aprile

Tina e Luisa - Novara 1940

 Racconto di 500 parole arrivato terzo a: 

#scopriarte Contest 25 aprile

Stendo la biancheria nel silenzio del paese.
Le api ronzano e gli uccellini cantano le loro melodie.
Una musica storpiata si fa strada da lontano. È il 25 aprile.
Mi sale un nodo alla gola. Quante emozioni oggi rimbalzano da persona a persona. Ho letto articoli e pensieri nei giorni scorsi e tutti si affannano ancora a stare da una parte o dall'altra dell'Italia che fu.

Siamo l'unica nazione che festeggia una sconfitta.
Magari ci fosse ancora Lui.
Tanti giovani morti per liberare l'Italia dagli italiani e dallo straniero.
Ma poi quante vendette.
Cosa c'è da festeggiare?
È stato un giorno meraviglioso.

Risento i racconti dei nonni. I viaggi in bicicletta dalla città verso paesini dove c'era ancora un po' di cibo da smerciare al mercato nero. Ci andava mia nonna, facendo la faccia innocente. E tornava con cose proibite nascoste sotto al cappotto: patate, riso. Tremando e pedalando.
E in questo posto tra gli ulivi, dove vivo, so di uomini che lavoravano in campagna per mantenere la famiglia, scambiati per dissidenti e fucilati sul posto, o caricati sui camion.
Attimi di terrore, con la morte attaccata al fucile di un uomo come te, che ti guarda come se non esistessi. E la tua vita è appesa al suo umore, alla sua bontà, alla sua cattiveria, al caso.
I tedeschi bussano alla porta con forza. Mia suocera è una bambina, entrano e vogliono mangiare. Sua mamma frigge le patate e le frigge ancora, pregando che se ne vadano, felici di quel pasto caldo che fa pensare alle loro mamme, sperando che si accontentino e che vadano a fare la guerra da un'altra parte.
Immagino questo paesino immerso nel silenzio, come oggi, le persone quasi tutte povere.
Non glie ne fregava niente della guerra, volevano solo mangiare e scaldarsi.
I bambini andavano a scuola a piedi, con un pezzetto di legno in mano da infilare nella stufetta della classe.
Il tempo passava al ritmo delle stagioni: la legna da tagliare, le olive da raccogliere, lavare i panni al fiume.
E poi c’era quella guerra, che risuonava lontana finché non compariva improvvisa, con gli occhi azzurro cielo del temuto avversario, e la sua arma puntata.
Ora lo straniero viene qui in vacanza e ristruttura vecchie case. Siamo tutti sotto lo stesso cielo e sopra la stessa terra.
C'è ancora chi sta a destra e chi a sinistra, attaccato a ideali che si dissolvono, come la canzone partigiana che svolazza stonata nella valle.
Il 25 aprile è libertà, dolore, morte, fame. Il prezzo da pagare.
È tornato il silenzio.
Questa guerra sarà finita solo quando un ragazzino annoiato la leggerà su un libro di scuola e non avrà sentito i racconti dei nonni, e non avrà la più pallida idea di cosa fosse, come la Guerra dei Cent'anni o quella del Peloponneso.
I morti allora riposeranno in pace e i vivi, forse, avranno capito che la guerra è solo una gigante, immensa pazzia.

Foto archivio GiBi

La pizza all'Andrea


Per 4 persone

Ingredienti
Per l’impasto:
1 kg. di farina
1 dl. di olio extravergine di oliva
30 gr. di sale
30 gr. di lievito
acqua
Per il sugo:
passata di pomodoro
1 cipolla
olive taggiasche in salamoia
10 spicchi d’aglio
origano
6 acciughe diliscate e lavate
sale q.b.

Preparazione
Impastare gli ingredienti per la base della pizza, far lievitare e disporre l’impasto sulla teglia, farlo ancora lievitare un po’, aggiungere il sughetto fatto con un trito di cipolla soffritta nell’olio con l’aggiunta della passata di pomodoro, sale e origano. Disporvi sopra le acciughe pulite, le olive, gli spicchi d’aglio schiacciati con la loro buccia, aggiustare con il sale. Infornare a 200° per 30 minuti. 

Immagine realizzata con IA

tratto dal libro: 
"Tavola Aromatica" Storie, Chiacchiere, Suggestioni e... di Guja Boriani & Elena Torti

Buon compleanno Libereso, per sempre con noi, amanti delle piante

 

In occasione del compleanno di Libereso Guglielmi, vi propongo un video che ho curato alcuni anni fa: L'uomo che mangia le piante.

Eccolo in una delle tante foto che scattai durante le riprese, tra i suoi Tamarilli che ora si trovano anche nel mio giardino. 

Seguendo il suo insegnamento distribuisco i semi di questa pianta sorprendente, perché anche lui amava "fare rete" e condividere.

Nella mia casetta degli attrezzi conservo ancora le bustine con i semi, su cui lui scriveva a mano i nomi delle piante.

Un uomo eccezionale e incredibile, proprio come il suo giardino, tra le case di Sanremo.

Qui potete trovare una delle sue ricette con i fiori:

Fiori di glicine e mimosa in pastella

Foto GiBi




Intervista con dieci domande all'autrice Greta Mercadante

Greta pubblica in self e cura ogni dettaglio delle sue opere, come piace a me. I suoi romanzi sembrano usciti da una casa editrice e questo è ciò che conta per alzare il livello di chi decide di auto pubblicarsi. Si tratta di un percorso non semplice, specialmente per chi inizia e per questo, quando incontro uno scrittore serio, cerco di farlo conoscere.

Greta Mercadante è nata a Rovigo nel 1977 e risiede da sempre a Cinisello Balsamo (MI). Sposata e madre di due bambini. Le sue prime pubblicazioni per Amazon "Un legame invisibile" e "Il perimetro del cielo" affrontano la problematica, tutta femminile, della perdita del lavoro e della ricerca del sé per reinventarsi in altri ruoli, con una narrazione quasi leggera e a tratti autobiografica.

1 A che punto del tuo percorso di vita ti sei sentita una scrittrice, e quindi hai deciso di pubblicare e perché?
A dire la verità, preferisco identificarmi come una "raccontastorie" piuttosto che una scrittrice. La decisione di pubblicare è stata motivata da un momento cruciale nella mia vita, un'esperienza personale che ha scatenato un'esigenza profonda. Volevo che le protagoniste dei miei romanzi, attraverso le loro storie, potessero offrire sostegno e conforto ad altre donne che affrontano difficoltà simili. Era importante per me creare un legame emotivo con le lettrici, far loro sentire che non erano sole nei loro percorsi di vita.

2 Cosa vorresti dire ai tuoi lettori? Che messaggio vuoi trasmettere?
Bè, sicuramente di scrivere una bella recensione! Scherzi a parte, ho iniziato a scrivere per trasmettere l'importanza di affrontare le sfide della vita con coraggio e determinazione, sapendo che non si è sole e che c'è sempre una luce alla fine del tunnel. Vorrei che le mie lettrici trovassero conforto e ispirazione nelle mie storie.

3 Secondo te possono coesistere i ruoli di essere donna, moglie, lavoratrice, mamma e anche autrice, senza ingolfare ulteriormente la tua vita?
Essere donna, moglie, lavoratrice, mamma e autrice è un compito impegnativo. Dalla mia esperienza personale, ho imparato che ci sarà sempre un ruolo che sembra prevalere sugli altri in determinati momenti, ma è proprio la capacità di bilanciare e adattarsi che ci permette di affrontare tutte le sfide. In fondo, ogni ruolo contribuisce a definire chi siamo e ci permette di esprimere la nostra completezza come individui.

4 Che stile ti caratterizza, cosa si deve aspettare un lettore dai tuoi romanzi?
Una cosa che mi rende orgogliosa e che mi differenzia da altri scrittori emergenti è che utilizzo il "tu" per narrare le storie, lo trovo un modo diverso per coinvolgere il lettore.

5 Quanto ci metti di te stessa nei tuoi personaggi?
Nei miei personaggi riverso molte sfaccettature della mia esperienza emotiva e delle mie riflessioni. Anche se, non smetterò mai di sottolineare che non sono una diretta trasposizione della mia vita.

6 Racconta qualcosa di pazzo che ti è successo nell’ambito della scrittura.
Non ho storie particolarmente folli da raccontare riguardo alla mia esperienza nella scrittura. Tuttavia, c'è un aneddoto che mi ha divertito parecchio. È successo più volte che le persone mi chiedano come faccia a "stare" con Teo, credendo che il personaggio della mia storia sia realmente mio marito.

7 Scrivere ti rende felice? Quale sensazione provi mentre crei una storia?
Scrivere è fonte di realizzazione personale. La sensazione che provo mentre creo una storia è difficile da descrivere a parole e si compone di tante fasi. È un misto di emozione, paura, felicità, trepidazione svuotamento, realizzazione ma anche un senso di responsabilità verso ciò che sto creando.

8 Preferisci scrivere o leggere?
Sono esperienze diverse ma altrettanto preziose. Scrivere mi consente di esplorare la mia creatività, di dare vita a mondi e personaggi e di condividere le mie riflessioni con gli altri. È un atto di espressione personale e di comunicazione che mi porta una profonda gratificazione.
D'altra parte, leggere mi offre l'opportunità di immergermi in mondi creati da altri autori, di esplorare nuove idee e di arricchire il mio bagaglio culturale ed emotivo.

9 Ora sei insegnante, quanto pensi che conti trasmettere il tuo amore per la parola ai tuoi alunni?
Nel mio ruolo di insegnante, ciò che cerco di trasmettere ai miei alunni non è solo l'amore per la parola, ma soprattutto la curiosità. La curiosità è la spinta che li porta ad esplorare, a interrogarsi sul mondo che li circonda e a cercare risposte.

10 Pensi che la scrittura scaturisca da situazioni difficili e dolorose, che sia un modo per esorcizzare la paura? Oppure cosa rappresenta per te la scrittura?
Assolutamente sì e può rappresentare anche una cura, un'opportunità di esplorazione personale, di connessione e di creazione di significato. È uno strumento potente che permette di dare forma alle nostre esperienze e di comprendere e trasformare le emozioni.

Se non li avete già letti, ecco su Amazon dove acquistarli in formato e-book o cartaceo, gratuito su Kindle Unlimited: 

Le madeleines di Proust… ma a Genova

Dentro a quel piccolo rombo, o losanga, come si vuole chiamare, si nasconde un velo di marmellata di fichi e limoni.
Sull’ostia si adagia un marzapane ripieno di sciroppo di zucchero.
Nei canestrelli è intrappolata l’acqua distillata di fiori d’arancio e, in superficie, croccanti palline di zucchero bianco ne contrastano la morbidezza.
Parole irresistibili che si vorrebbero mangiare, assaporare, succhiare, leccare.
Ma queste parole descrivono deliziosi dolci che una piccola pasticceria di Genova sforna dai primi dell’Ottocento.
Sto parlando di Romanengo, ovviamente.
Quando si ha a che fare con il cibo, spesso, attaccato al gusto, arriva un ricordo.
Quindi non mi resta che raccontarvi il mio.
Avevo una zia che abitava a Genova e per Pasqua mi portava sempre i cosiddetti Quaresimali.
In un vassoio avvolto da una carta bianca, legata da un nastrino chiaro, a sua volta ricoperta da una azzurra, con nastrino blu, fermata con semplicità dal marchio della pasticceria, si nascondevano scrigni di sapore.
Sento ancora il rumore dei quella carta piena di promesse che scricchiolava tra le dita, il nastro che scivolava via, il profumo di frutta che usciva dal pacchetto, il sorriso dagli occhi azzurri che mi guardava e si gratificava della mia piccola gioia.
Non sono attratta dai dolci, ma quel pensiero che da Genova, su un treno, tra le mani prudenti della zia per non rovinare la confezione, i Quaresimali arrivavano fino a me, mi rendeva perfino golosa.
E assaggiavo e mugolavo come un cagnolino felice. Non erano i dolcetti che gustavo, ma l'immenso amore della zia.
Pare che questi pasticcini risalgano al Cinquecento, quando le suore del convento di San Tommaso preparavano la pasta di mandorle senza burro, latte e uova, per rispettare il divieto di mangiare grassi animali, durante la Quaresima.
Un giorno la zia arrivò con un nuovo regalo da scartare: un libro. Era un giallo dal titolo: I cioccolatini di Soziglia, di Carlo Alberto Rizzi. Perché la pasticceria si trova in una piazza che ha quel nome, nel centro storico di Genova. Lo divorai, con lo stesso gusto che ci mettevo nel mangiare i Quaresimali, pensando che prima o poi mi sarebbe piaciuto vedere quel posto.
Desiderio esaudito. Una volta all’università, la zia mi accompagnò lì, per assaggiare una delle loro prelibatezze: le gocce di rosolio. Piccoli scrigni di zucchero liscio che, una volta rotti con i denti, lasciano uscire diversi tipi di rosolio al gusto di rosa, certosino, anice, curaçao, marasca, acqua amara, e viola.
Passarono gli anni e un giorno, una cara amica della zia che ormai non c’era più, mi fece una sorpresa e mi donò proprio i Quaresimali, che portarono con sé ondate di emozioni.
Gli anni passarono ancora e, con stupore, scoprii che la pasticceria Romanengo aveva anche un negozio a Milano. Ne parlai con mio figlio che abita là.
E ieri, l’altro mio figlio, al rientro da Milano, come un messaggero di prelibatezze, è sceso anche lui dal treno e mi ha consegnato il magico pacchetto.
L’accoglienza nel negozietto meneghino è stata eccezionale, con tanto di assaggi e racconti e sorrisi. Mio figlio ne è rimasto affascinato e credo che tornerà, forse con me, per fare nuovi acquisti.
A casa ho assaggiato tutto, ricordando, con emozione, quei profumi che si confondevano con la zia profumata e bella e dolce.
Non vi resta che provare queste delizie a Genova o a Milano, anche se vostra zia non ve le ha mai fatte assaggiare, anche se la sua amica non ve le ha mai regalate, anche se non avete un figlio che ve le compra e uno che ve le porta.
Sappiate solo che i Quaresimali si possono assaggiare solo nel periodo pasquale. Durante il resto dell’anno la pasticceria non li produce ma vi potrete consolare con canditi sorprendenti come quello al chinotto, unico al mondo, i confetti, i fondant, il cioccolato, le confetture. E mi fermo qui. 
Tra le dita rigiro il nastrino che lega nel tempo dolci, affetti, ricordi.

Certo, ciò che palpita così, nel profondo di me stesso, deve essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me.

Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo.

Tratto da M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto
Foto GiBi